La Mostra di Michele Anselmi per Cinemonitor | 9
Pure una Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile finisce dentro un micidiale tritatutto meccanico in “Competencia Oficial”, il nuovo film, in concorso, dei registi argentini Mariano Cohn e Gastón Duprat. Chissà se è la stessa coppa che proprio a Venezia vinse l’attore Oscar Martínez nel 2016 per la precedente commedia dei due, “Il cittadino illustre”. Se lì si sfotteva un certo mondo letterario, qui è l’ambiente del cinema ad essere preso di mira, a partire dal titolo con doppio significato: la partecipazione in concorso a un festival e lo scontro plateale tra due attori. Martínez è di nuovo della partita, stavolta dividendo la scena con Antonio Banderas e Penélope Cruz. Un cast “all star” si direbbe, benché il film sfoderi una dimensione quasi teatrale, da apologo pungente, a partire dalle riprese quasi tutte in interni: una sontuosa costruzione moderna che ospita la Fondazione di un magnate dell’industria farmaceutica.
Il riccone spagnolo, compiendo 80 anni, vuole essere ricordato per qualcosa di buono: scartata l’idea di un ponte, produrrà un gran film d’autore con i migliori talenti in circolazione. Così la regista “à la page” Lola Cuevas ingaggia, per portare sullo schermo il romanzo “Rivalidad”, due attori famosi che più diversi non potrebbero essere, cioè Félix Rivero e Iván Torres. L’uno è vanitoso, di fama internazionale, sciupafemmine e facoltoso; l’altro è intellettuale, legato alla propria lingua, intellettuale e sobrio. Potranno mai intendersi? Rivali nella storia da interpretare e nei nove giorni di prove che la regista impone loro, i due ingaggiano un infinito duello sotto lo sguardo complice di Lola, a sua volta donna non facile: arrogante, manipolatrice, lesbica, sola, ossessionata dalla ricerca di una perfezione tutta esteriore.
Scandito dal “Notturno n. 2” di Chopin, il film è un arguto corpo a corpo sul mestiere dell’attore, tra ignoranza e superbia, cinismo e vanagloria, in un crescendo di tensioni che ricorda un po’ “Gli insospettabili” con Michael Caine e Laurence Olivier, anche se qui è il personaggio di Lola a pilotare i giochi, almeno fino a un certo punto. La morale è affidata, per scherzo ma non troppo, a questa frase: “Ci sono film che finiscono coi titoli di coda e film che non finiscono mai”. Vedendolo capirete perché.
L’atletico Banderas e il barbuto Martínez si divertono a sfidarsi sul filo di qualche luogo comune sul cinema seguendo la partitura, ora buffa ora asprigna, scritta dai due registi; ma è Cruz, qui con un parruccone rosso e abiti da eccentrico lusso, a dimostrarsi, come anche in “Madres Paralelas”, interprete di notevole levatura e insinuante finezza. Vedi mai che le piova in testa una Coppa Volpi.
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Ci si diverte, ma in una chiave decisamente diversa, anche col britannico “Last Night in Soho” di Edgar Wright, fuori concorso. “La nostalgia può essere pericolosa, trascorrendo troppo tempo a guardarsi indietro si potrebbe non riuscire a scorgere il pericolo davanti a noi” scrive il regista. Un po’ quanto succede alla giovane Eloise “Ellie” Turner che dal natio paesino della Cornovaglia, dove vive con la nonna, si trasferisce a Londra, grazie a una borsa di studio, per diventare stilista, anzi “fashion designer”. Lei detesta la contemporaneità, vive idealmente piantata nella Londra anni Sessanta (abiti, pettinature, canzoni, colori, arredi), e proprio dalle parti di Soho, un tempo così mitizzato, trova una stanza in affitto presso un’anziana signora.
La fascinazione è così forte da sconfiggere il muro del tempo o quasi, sicché la ragazza, dopo un sogno, si ritrova proiettata nel 1966, lo capiamo perché è appena uscito “007 – Operazione Tuono”, scoprendo nella sensuale e biondissima Sandie una sorta di onirico alter-ego. Ma presto le cose, tra presente e passato, prendono una brutta piega, anche perché quella stanza, sulle prime rassicurante, custodisce un atroce segreto.
Siamo in zona thriller psicologico, e naturalmente il film bluffa un po’, ma senza barare: la mamma di “Ellie” morì suicida anni prima a causa di gravi disturbi mentali, e la maledizione sembra ripetersi. Il film è una calda lettera d’amore nei confronti della “swingin’ London” e insieme il ritratto tenebroso, pure sanguinario,dell’altra faccia di quella rosea visione. Tutto spiazzante, fantasioso, esagerato. Si strizza l’occhio al cinema horror e pop della Hammer, ai volti deformati di Bacon, Petula Clark canta “Downtown” e Sandie Shaw “Puppet On a String”, vecchie cine-glorie come Diana Rigg, Terence Stamp e Rita Tushingham partecipano al gioco sempre più macabro. Il tutto sotto lo sguardo delle due giovani protagoniste dai destini intrecciati, che sono le azzeccate Thomasin Harcourt McKenzie e Anya Taylor-Joy (sì “la regina degli scacchi”).
Michele Anselmi