L’angolo di Michele Anselmi
È una sorta di “Bottarga Blues”, innaffiato con birra e mirto, il secondo film di Laura Bispuri, romana, classe 1977, che già si fece notare col molto lodato “Vergine giurata”. In concorso alla Berlinale e da oggi, giovedì 22 febbraio nelle sale con 01 Distribution, “Figlia mia” non maneggia un argomento facile, cioè la maternità più o meno condivisa, e lo fa applicando alla tosta vicenda canoni estetici piuttosto estranei al cinema italiano di consumo. Traduzione: fotografia a luce naturale, cinepresa nervosa e mobile, accurata cornice linguistico/dialettale, forte piglio antropologico, uso essenziale della musica, ma soprattutto l’idea – così spiegata dalla regista – di “mimetizzare due grandi attrici in un contesto reale che in qualche modo potesse mangiarle”.
Da questo punto di vista “Figlia mia” è un film riuscito, interessante, non convenzionale, quindi da vedere, anche se, presumo, non piacerà a tutte le donne che lo vedranno (già ho sentito qualche infastidito mormorio). Bispuri immerge infatti la sua storia un po’ da tragedia greca in una Sardegna brulla e assolata, arcaica e contemporanea, a un passo dal mare ma anche vagamente western, nel senso che si vedono molti cavalli e si fanno i rodei.
La figlia in questione si chiama Vittoria, sta per compiere dieci anni, ha i capelli rossi, il viso pieno di lentiggini, un corpo ancora da bambina ma la curiosità del primo bacio in bocca. Vittoria è cresciuta serenamente con Tina, dai capelli scuri e folti: una donna concreta, che lavora in una piccola impresa di inscatolamento del pesce, sposata con un uomo gentile al quale non concede più neanche un momento di tenerezza. Per tutti Vittoria è figlia di Tina, ma non ci vuole molto a capire la verità. La bambina fu partorita, e subito ceduta a Tina in cambio di soldi e aiuto materiale, da Angelica, una giovane donna bionda e sciroccata, sessualmente promiscua, dedita a bere e a degradarsi, pure costretta a mollare per debiti la sgarrupata fattoria nella quale alleva cavalli.
Il dilemma morale agitato dal film è abbastanza semplice: quale mamma sceglierà Vittoria, una volta scoperta la verità? L’amorevole e concreta Tina o la fragile e orgogliosa Angelica?
In realtà, Bispuri non la mette giù così semplice e fa bene. Spiega infatti nelle note di regia: “Mi sono chiesta che cosa voglia dire essere madre oggi; se sia possibile crescere con più figure materne di riferimento; se sia più importante il legame fisico con chi ti porta in pancia, ti fa nascere e ti assomiglia o il legame culturale con chi ti cresce”. La risposta possibile viene dall’ultima immagine del film, bella e fortemente simbolica, a suo modo inattesa, e quindi da non rivelare per non rovinare la sorpresa.
La piccola Sara Casu, scovata in Sardegna, fa Vittoria, mentre Valeria Golino e Alba Rohrwacher si confrontano, in un’apprezzabile gara di immedesimazione anche fisica, nei ruoli di Tina e Angelica; il versante maschile è coperto da Michele Carboni e Udo Kier, il primo nei panni del saggio marito, il secondo (forse per esigenze di coproduzione con la Germania) in quello del bieco commerciante tedesco di cavalli.
Vedendo “Figlia mia” viene da pensare a certi film indipendenti ambientati nella profonda provincia americana, lì dove convivono miseria e dignità, peggiori istinti e palpiti gentili. Ma forse, così dicendo, si fa un torto allo stile comunque personale di Laura Bispuri.
Michele Anselmi