Trionfa il festival di Venezia. In realtà si chiama Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, una denominazione dannunzianamente pomposa, ereditata dal fascismo che la fondò nel 1932. Quest’anno si presenta come forse la migliore di sempre. Al punto che Cannes sembra impallidire. Il direttore Barbera si è dimostrato più aggiornato non disdegnando, come invece i francesi, anche i film prodotti per la rete da Netflix e compagnia. Ha ragione perché se non esistessero i nuovi player autori come Woody Allen o Martin Scorsese avrebbero difficoltà a farsi finanziare. Ci aspettiamo dunque una rassegna all’altezza dei tempi. Tutto bene? Potremmo dire di sì, se non fosse che un fantasma si aggira per le sale. È lo spettro dei giovani che non vanno più al cinema. O, se ci vanno, è solo per assistere a favolette o a spettacoli roboanti, pieni di effetti speciali. Fosse per loro i film d’autore, che si palesano invece nei festival, non esisterebbero più. Dobbiamo dirci la verità: la popolazione giovanile è mille miglia lontana dal cinema amato dai loro nonni e genitori. Fate voi stessi un test e chiedete a un diciottenne se ha mai sentito parlare di Antonioni o di Francesco Rosi. Vi guarderà stupito. I giovani conoscono Steve Jobs, ma quasi nessuno sa chi sia Fellini. A riprova che il cinema come lo conosciamo noi per i giovani è un reperto dell’antichità. Perché stupirci? Allenati sin dall’infanzia a frequentare la momentaneità dei cellulari, il cinema d’autore, che richiede attenzione e riflessione, non appartiene al loro mondo. Provate a mostrargli un film di Bresson o di Bergman, dopo pochi minuti prevarrà lo sbadiglio e poi il fastidio. Eppure non è così per la letteratura. Omero e Dante appassionano ancora i giovanissimi. Perché il cinema non è capace di fare altrettanto? Azzardo l’ipotesi che l’era di Internet abbia addestrato i ragazzi a rifuggire dalla concentrazione. Per restare in Italia basta contemplare il box office: i film che incassano davvero sono solo americani e in prevalenza d’evasione. Noi ci salviamo con qualche commedia più o meno riuscita. Tutto il resto, come direbbe Califano, è noia. Colpisce che persino quando gli autori si cimentano con tematiche prettamente giovanili, siano proprio i ragazzi a rifiutarli. Da noi ha provato un premio Oscar, Gabriele Salvatores, con i due titoli Il ragazzo Invisibile. Anche altrove film molto belli, come Mommy, Whiplash, Boyhood, solo per citarne alcuni, pur avendo protagonisti dei ragazzi sono stati visti quasi esclusivamente da un pubblico adulto. Possibile che il pensiero, la critica sociale e l’impegno interessino soltanto dai trent’anni in su? Per fortuna sussistono realtà di una consistente partecipazione giovanile interessata al cinema non di mero spettacolo. Per esempio in Francia, dove si staccano oltre 200 milioni di biglietti l’anno, il doppio che da noi, le sale sono piene di ragazzi che preferiscono spendere sabato e domenica a vedere un bel film anziché chattare. Faccio l’esempio di Ida, splendida pellicola diretta da Paweł Pawlikowski, premiato con un Oscar. Racconta la storia di una ragazzina allevata a farsi suora in una Polonia tristemente repressa dal comunismo. Da noi l’hanno visto poche migliaia di spettatori, in Francia oltre 500.000, la maggior parte giovani, che si sono appassionati a scoprire le avventure della loro coetanea. Inutile sorprenderci. La Francia ha avuto la fortuna che sin dal 1947 un ministro come Andrè Malraux ha insegnato ai giovani ad amare la cultura. Noi abbiamo avuto prima Andreotti, che ha censurato autori come De Sica e Rossellini, sostenendo che i panni sporchi si lavano in famiglia e non al cinema. Poi l’hanno seguito ministri forzaitalioti come Bondi e Galan. Il primo è finito a declamare poesie per i famigli, il secondo in galera.
Roberto Faenza