È ancora possibile che in uno Stato di diritto, che vanta uno dei dettati costituzionali più avanzati e democratici, si ricorra ancora alla “giustizia-fai-da-te”? Ai metodi arcaici ed obsoleti, ai tipici metodi di giustizia in uso nelle civiltà antiche “dell’occhio per occhio-dente per dente”, come sostiene proprio il Tibetano, uno dei personaggi che in Il codice del Babbuino interpreta il boss del quartiere? Nel linguaggio morale della periferia e della strada, purtroppo, ancora sì. Il nuovo lungometraggio di Davide Alfonsi e Denis Malagnino, opera terza del loro sodalizio artistico, racconta un caso di giustizia fai-da-te ambientato in una periferia sempre più cinica, spietata e violenta.
Laddove un tempo si sviluppava il vanto del tessuto industriale romano – la gloriosa Tiburtina Valley con le molte aziende operanti nel settore dell’ITC – viene ritrovato, tra i campi rom, come in un lontano far west, il corpo di una donna, riverso e abbandonato su una strada buia, scovato ed illuminato dai fari di un’auto, che lentamente si avvicina. Da questi fotogrammi, dalla disperazione di Denis che piange mentre soccorre il corpo violentato ed abusato di Patrizia, la giovane donna, inizierà la giustizia-fai-da-te di Tiberio, il ragazzo della donna che ha subito violenza: dapprima finalizzata alla formazione di un nuovo branco, punitivo in maniera inversa, e poi solitaria. C’è chi vuole unirsi al branco solo per soldi, come l’amico di infanzia di Tiberio, chi per motivi “morali”, per punire un torto accaduto nel quartiere di suo dominio, come il Tibetano, chi solo per pura amicizia, come Denis. Non importa il motivo della vendetta perché gli appartenenti al branco hanno un linguaggio proprio, quello della provincia: un torto subito sulla strada deve essere sempre vendicato. Solo primi e primissimi piani per mostrare la rabbia e il linguaggio del branco: i pochi campi lunghi della pellicola mostrano invece una periferia illuminata solo dalle luci delle slot machine.
Un film maschile – come sempre nelle pellicole di Alfonsi e Malagnino in cui la presenza femminile è relegata a camei – per raccontare uno stupro, un trauma ed una violenza ad una giovane donna. Il racconto trae spunto proprio da un fatto di cronaca nera accaduto a Guidonia, nel 2009, quando una ragazza di ventuno anni fu violentata insieme al suo compagno da un branco di quattro uomini.
Naturalmente, nella nuova pellicola, rispetto alle precedenti (vedi La Rieducazione), si ride ben poco, se non in una sequenza in cui il Tibetano e Denis avviano una discussione piuttosto divertente ed animata sul regista di Scarface. A parte la diatriba tra l’attribuzione della paternità a Brian De Palma o Martin Scorsese, è l’analisi della sparatoria finale che risulta esilarante secondo il punto di vista del Tibetano, formatosi cinematograficamente con “il Mereghetti”. Il codice del Babbuino suscita emozioni contrastanti, confermandosi un’opera tosta e toccante sulla giustizia fai-da-te. Prossimamente in sala per distribuzione indipendente.
Alessandra Alfonsi