L’angolo di Michele Anselmi

Alla fine anche Aurelio Grimaldi, regista siciliano al quale non difetta una certa audacia nella scelta dei temi, ha piazzato una scritta sui titoli di coda per cautelarsi un po’. Dice: “Seppure collocata nel contesto di fatti documentati, la ricostruzione narrativa e i personaggi che la compongono sono il frutto della fantasia dell’autore”. Traduzione: mi sono attenuto all’imponente materiale giudiziario, ma ho inventato parecchio per esigenze di spettacolo.
Esce il 2 luglio, in alcune delle pochissime sale riaperte, “Il delitto Mattarella”, targato Cine1 Italia e Arancia Cinema. La commissione del Mibact l’ha bocciato, piazzandolo al 36esimo posto su 36 progetti, quindi non ci sono soldi pubblici di mezzo, il che dimostra quanto Grimaldi, siciliano, classe 1957, regista di quel “La discesa di Aclà a Floristella” che lo rivelò a Venezia 1992, tenesse a girare questo film. Peraltro tratto da un suo libro e dedicato “a una figura centrale della nostra storia, un esempio di buona politica e rettitudine, e però oggetto di una sorta di oblio collettivo. Non ci sono film o fiction su di lui”.
Piersanti Mattarella, fratello maggiore dell’attuale presidente della Repubblica, fu ucciso da un killer a volto scoperto il 6 gennaio del 1980, alla guida della sua Fiat, mentre andava a messa con la famiglia (nei giorni di festa non voleva la scorta). Era democristiano, presidente della Regione Sicilia, un uomo onesto, deciso a fare pulizia in quel covo di connivenze e corruzione. Subito venne seguita “la pista rossa”, forse a causa di un’improbabile telefonata in siciliano ricevuta qualche giorno prima: “Abbiamo ucciso il vostro compare Aldo Moro, il prossimo siete voi”. Ma che fosse un delitto anomalo, maturato nel quadro di un accordo perverso tra capi mafiosi, neofascisti, banda della Magliana, esponenti di Gladio, capi democristiani scontenti e servizi segreti, apparve chiaro a tanti, se non a tutti. Non per niente, pur senza fare il nome, Grimaldi fa uccidere Mattarella a un giovanotto belloccio, con jeans rossi e scarpe Clarks, che somiglia al neofascista Giusva Fioravanti.
Il film, neanche 100 minuti, parte dall’omicidio del gennaio 1980 per poi muoversi tra “tre mesi prima” e ”quattro mesi dopo”. L’artificio serve a Grimaldi per ricostruire l’antefatto, cioè il clima di progressivo isolamento di Mattarella in seguito a un’ispezione riguardante un bando fasullo per la costruzione di sei scuole a Palermo, e le conseguenze di quell’assassinio, cioè l’ascesa al potere regionale del duttile Mario D’Acquisto e l’esecuzione del comunista scomodo Pio La Torre, stimato da Mattarella.
Il clima generale è un po’ da docu-drama, molte didascalie, una voce narrante che spiega i passaggi cruciali e la posta in gioco, frasi vere prese da verbali giudiziarie e situazioni inventate ma ritenute funzionali al racconto. I nomi, tranne quello di Fioravanti, vengono fatti: e quindi ecco l’assessore Vito Ciancimino e il sindaco Salvo Lima, il segretario regionale Rosario Nicoletti e il deputato dc Giovanni Gioia, il magistrati Pietro Grasso e Giovanni Falcone, “l’imprenditore” Rosario Spatola e il boss Totò Riina, il fascista Concutelli e il banchiere Michele Sindona, più il versante familiare rappresentato dalla moglie Irma e dal fratello Sergio. Purtroppo appare anche Andreotti, visto come il “gran burattinaio” taciturno, asservito ai mafiosi che incontra di nascosto dalla scorta: e sono scene davvero brutte, inutili, inverosimili, per come sono girate e per l’attore malamente truccato.
Tanta la carne al fuoco, tra suggestioni e depistaggi, come succede in questi film sulla mafia, e bisogna riconoscere a Grimaldi almeno il tentativo di ordinare il materiale per far emergere la figura, alta e specchiata, del “dossettiano” Piersanti Mattarella. Sarebbe curioso conoscere il parere del presidente Mattarella, ma temo che non si saprà mai.
Musica solenne, anche da oratorio sacro, presa diretta in siciliano stretto, ricostruzione d’ambiente povera ma non misera, attori impegnati a non rendersi solo dei “sosia”, alla maniera dello scomparso Giuseppe Ferrara. David Coco fa Mattarella, Donatella Finocchiaro la moglie, Tony Sperandeo il furente Ciancimino, Tuccio Musumeci l’ex sindaco Lima, Claudio Castrogiovanni il morituro La Torre. Il più bravo in campo è Leo Gullotta, che nei panni del segretario regionale Nicoletti cesella un politico in bilico tra ideali e vergogna, a suo modo tormentato: infatti finì suicida (almeno così pare).

Michele Anselmi