“Guarda, Isacco e Ismaele, i due figli di Abramo”.

Presentato lo scorso novembre al Torino Film Festival per la sezione Festa mobile e vincitore di due prestigiosi premi al Tokyo International Film Festival del 2012, “Il figlio dell’altra” della regista francese di origine ebraica Lorraine Lévy è a tutti gli effetti un bel film.

Tratto da un racconto di Noam Fitoussi, il film intende trattare la complessa tematica della questione palestinese; la Lévy si serve, per fare ciò, del classico modello letterario dello scambio in culla. Attraverso la delicata e tormentata vicenda umana di due giovani ragazzi, Joseph, cresciuto a Tel Aviv in una famiglia ebrea, e Yacine, allevato in una famiglia palestinese in Cisgiordania, viene ripresa la difficile convivenza di due popoli in una sola terra.

Durante la visita militare, Joseph scopre che il suo gruppo sanguigno non è compatibile con quello dei suoi genitori; da qui, attraverso le numerose indagini della madre Orith – interpretata da una bravissima Emmanuelle Devos – viene a conoscenza del fatto di essere stato scambiato per errore al momento della nascita, nel 1991, durante la guerra del Golfo, nell’ospedale di Haifa che, colpito dagli iracheni, stava per essere evacuato.

Tale incredibile scoperta porterà entrambe le vite delle due famiglie ad un profondo sconvolgimento, mettendo in discussione oltre l’identità dell’essere anche quella dell’appartenenza etnica, passando inevitabilmente attraverso quella religiosa: l’ebreo non è più tale, visto che sua madre è araba e il giovane arabo, che in realtà è ebreo, non è altri che il suo “peggior nemico”.

Un film sull’identità, dunque, ma che, proprio per essere ambientato nei territori da sempre colpiti dal conflitto israelo-palestinese, ci pone di fronte a dubbi e problematiche che coinvolgono la persona nella sua complessa poliedricità.

Diversi gli aspetti che ci fanno apprezzare la conduzione registica della Lévi: innanzitutto emerge la delicatezza con cui questo tema viene trattato, senza incorrere mai – pur essendocene il pericolo – in toni sdolcinati o patetici (e a tale proposito ci sembra però in contrasto con lo spessore del film la sua locandina, degna solo di un certo cinema commerciale hollywoodiano).

Interessanti anche le diverse modalità dei personaggi nell’affrontare il problema e il conseguente dolore: le figure maschili dei due padri, Alon e Said, inizialmente rifiutano e non vogliono accettare la verità in antitesi con le rispettive figure femminili, le due madri, Orith e Leila, che sin dall’inizio della rivelazione con grande apertura e comprensione l’una verso l’altra tenderanno sempre più ad avvicinarsi e ad accogliere come un secondo figlio colui che non hanno cresciuto ma del quale sono le madri biologiche.

Infine i due giovani, Joseph e Yacine. I loro incontri si faranno sempre più frequenti e mostreranno la volontà di conoscere ognuno la vita dell’altro e quindi la loro stessa vita, ma rientrando poi in quella che ognuno di loro due conosce veramente e che gli appartiene. Il giovane palestinese e il giovane israeliano cominciano a spostarsi scambievolmente nei territori di Israele e Palestina.

La rottura e la divisione fra due popoli, l’odio e le innumerevoli guerre, la morte, si condensano in una linea segnata sulla carta geografica.

La frontiera che separa le due terre, diventa il luogo-fulcro di tutto il film: qui gli uomini vengono separati, ma è ancora qui che essi si incontrano e si uniscono. Un luogo dove si entra e si esce da singoli, ma anche dove è possibile entrare e uscire assieme all’ “altr0”.

Anche le due personalità e gli ambienti dove vivono Joseph e Yacine sono profondamente diversi tra loro: il primo è cresciuto a Tel Aviv, ha goduto di una vita agiata e sogna di diventare musicista; il secondo, Yacine, è stato allevato in Cisgiordania in una casa modesta, si è appena diplomato a Parigi e sogna di aprire un ospedale nella sua terra.

Senza dubbio il loro avvicinamento è dovuto al fatto che molti dei giovani che vivono in quelle terre non nutrono sentimenti di odio verso i loro coetanei che stanno al di là della frontiera, diversamente dagli adulti che continuano a tenere vivo il conflitto, così come vediamo nei continui atteggiamenti accusatori e  provocatori di entrambi i padri dei due ragazzi.

Uno dei momenti più belli del film è quando Joseph, appena venuto a conoscenza  dello scambio, si reca dal rabbino della sua comunità: egli è cresciuto e ha vissuto fino all’età di diciotto anni rispettando i precetti dell’ebraismo, è stato circonciso, ha fatto il bar mitzvah, eppure secondo le parole del rabbino, è necessaria per lui una “conversione” attraverso diversi rituali: 

Rabbino: “Vedi, l’ebraismo non è una convinzione Joseph, ma uno stato, uno stato spirituale connesso alla tua stessa natura … se la tua vera madre non è ebrea, non lo sei nemmeno tu ….

Joseph: “Io però sono sempre lo stesso …”.

Un film fatto di primi piani, di silenzi, di gesti, di parole non pronunciate ma che non hanno bisogno di esserlo e molto si deve all’interpretazione efficace e ben calibrata del cast che vede lavorare insieme attori di provenienza francese, palestinese e israeliani.

È a Joseph che è affidata la parte finale del film, ma la voce in sottofondo è quella di Yacine. Joseph è inquadrato mentre, seduto all’ultimo piano di un palazzo, guarda parte della sua terra, così come aveva fatto precedentemente Yacine guardando dall’alto la sua; il film non ha una conclusione esatta, rimane aperto, così come è giusto che sia: le due realtà, accettandosi, si intrecciano e infine si riuniscono.

Onorina Collaceto