La Mostra di Michele Anselmi per Cinemonitor | 3
“Per quanto la brucino, per quanto la spezzino, per quanto la falsifichino, la storia umana si rifiuta di stare zitta” ammonisce sui titoli di coda una frase dello scrittore uruguaiano Eduardo Galeano. Ci si augura che sia così. Applausi anche dai critici a “Madres paralelas” di Pedro Almódovar, che ha inaugurato in concorso la 78ª Mostra del cinema. Quello del regista spagnolo è un film complesso e insinuante, a suo modo un mélo, anche abbastanza fiammeggiante, ma inserito più di altre volte in un discorso sugli antenati e i discendenti, sul passato storico e le amnesie che lo zavorrano.
Anche se si parte dall’inverno del 2016, per arrivare a tre anni dopo, diciamo alla vigilia del Covid, è il franchismo il fantasma che agita la coscienza di una delle due “madri parallele”. Fotografa ammirata e donna indipendente, la quarantenne Janis è sicura che i resti del suo bisnonno giacciano sottoterra, in una fossa comune in aperta campagna, dove fu ucciso dai “falangisti” di Franco nei primi giorni della guerra civile (1936-1939). Ma servono soldi pubblici per scavare e solo un amico avvocato, Arturo, può aiutarla a compiere la nobile missione. I due finiscono a letto e così ritroviamo Janis con il pancione a un passo dal parto. Nella stanza dell’ospedale c’è un’altra partoriente, la giovanissima Ana: magra, traumatizzata, irrisolta. Nascono due bambine, e intanto le puerpere sembrano stringere un caldo patto d’amicizia, anche se il destino si sta preparando a complicare non poco le loro esistenze, tragicamente.
Il regista iberico costruisce la sua fitta trama su una serie di colpi di scena, uno dei quali legato a un classico del cinema; e tuttavia sarebbe un crimine rovinare la sorpresa agli spettatori raccontando oltre. A due anni dall’autobiografico “Dolor y gloria”, dopo il loffio mediometraggio “The Human Voice”, Almodóvar firma un film bello, potente, che mette insieme, appunto, due temi a lui cari: la triste eredità della dittatura franchista, spesso rimossa nella Spagna odierna, e la qualità umana delle madri, anche quando appaiono imperfette o contraddittorie. A dire la verità le “madres” sono tre, perché c’è pure Teresa, la quasi cinquantenne mamma di Ana, un’attrice egoista e del tutto priva di istinto materno.
Fotografato da José Luis Alcaine su una tavolozza cromatica che punta sul rosso e sul verde, il film usa le musiche di Alberto Iglesias in una chiave fortemente melodrammatica, un po’ anni Cinquanta; il tutto inserito però in una chiave realistica, a tratti anche buffa, tra tentazioni lesbiche, test del Dna e famiglie allargate, che prepara il finale liberatorio evocato dall’incipit. E qui si spiega meglio la frase di Galeano.
Nelle sale dal 28 ottobre con Warner Bros, “Madres paralelas” conferma il talento di Almodóvar, quel suo sapersi muovere tra formalismo estetico e sostanza carnale, insomma tra stile e concretezza. In questo assecondato da una vibrante Penélope Cruz nei panni di Janis (il nome del personaggio viene proprio dalla cantante rock-blues americana), mentre Ana è incarnata dall’attrice-rivelazione Milena Smit, precisa nel dare corpo e umori a quell’adolescente ignara della storia e forse alla ricerca di una vera madre. Israel Elejade e Aitana Sánchez Gijón, nei panni di Arturo e Teresa, completano il quadro, con Rossy de Palma a fare la ciliegina sulla torta nel ruolo della direttrice di una rivista patinata.
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Se lo spagnolo “Madres paralelas” ha inaugurato il concorso per il Leone d’oro, il francese “Les promesses” ha aperto la sezione Orizzonti, anch’essa competitiva. L’ha scritto e diretto Thomas Kruithof, al suo secondo film, e anche qui fa capolino la realtà. “Le promesse sono la moneta della politica” scrive il regista, poi certo bisogna vedere se saranno mantenute o resteranno carta straccia (vale anche per l’Italia, s’intende). In una città della cintura parigina la sindaca Clémence Collombet, da dodici anni al potere, sta completando il suo secondo mandato. Aiutata dal braccio destro Yazid, la donna deve affrontare una grana non da poco prima di andarsene: un enorme condominio chiamato “Les Bernardins”, nel quale vivono circa tremila persone, sta paurosamente degradandosi, tra infiltrazioni d’acqua, affitti clandestini, oneri non pagati. Ci sarebbero 63 milioni di euro del governo per risanare quell’edificio popolare, ma tutto sembra complicarsi per la sindaca uscente, peraltro lusingata all’idea di diventare ministra, a patto di lasciar perdere la faccenda del palazzone.
Il dilemma morale posto dal film è chiaro: come conciliare l’ambizione personale con il rispetto verso gli elettori, specie se povera gente in condizioni di vita vergognose? Clémence è una sindaca scaltra, idealista e cinica al tempo stesso, la politica è tutto per lei (basterebbe vedere in che casa “délabreé” vive); ma s’impone una scelta audace, radicale, e forse sarà Yazid a prenderla per mano.
Se Isabelle Huppert fa, benissimo, un personaggio “alla” Isabelle Huppert, è Reda Kaleb la vera anima del film nei panni di Yazid, l’uomo che crebbe in quel disgraziato condominio e conosce a menadito le regole della politica, le stesse praticate dal giovane Barack Obama nel 1996 per liberarsi disinvoltamente della concorrente democratica Alice Palmer. “Les promesses” uscirà da noi con Notorious Pictures.
Michele Anselmi