La Mostra di Michele Anselmi per Cinemonitor | 23

Bisogna riconoscere al presidente di giuria della 78ª Mostra di Venezia, il coreano Bong Joon-ho, quello di “Parasite”, di aver cucito un verdetto coi fiocchi: non solo nel merito dei film, ma anche per ciò che suggerisce. Il Leone d’oro è andato infatti al film francese “L’événement”, di Audrey Diwan, e mi pare scelta perfetta, difficilmente contestabile: l’ha diretto una donna, viene dal libro autobiografico di una donna, racconta il doloroso viaggio di una giovane donna nell’inferno dell’aborto clandestino (uscirà con Europictures in Italia). Vero: è la retrograda Francia del 1963, ma in molti Paesi succedono ancora cose del genere, e anche in Italia c’è vorrebbe riportare indietro l’orologio su quel fronte.
Poi c’è l’Italia, che, a sorpresa ma non troppo, incassa tre riconoscimenti su otto attribuiti: il Gran premio della giuria a “È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino, il Premio speciale della giuria a “Il buco” di Michelangelo Frammartino, il Premio Mastroianni al miglior attore (o attrice) emergente a Filippo Scotti, ancora per “È stata la mano di Dio”.
Probabile che Rai Cinema, considerati gli investimenti fatti, si aspettasse qualcosa di più, ma temo che lo splendido “Qui rido io” di Mario Martone sia stato preso solo come un’onesta cine-biografia di un attore napoletano ottocentesco ai giurati del tutto sconosciuto.
E a non dire delle donne: non ce n’erano tante in concorso, e su questo davvero non vale la pena di polemizzare, ma sono state ampiamente apprezzate: non solo il Leone d’oro alla francese Diwan, ma anche il premio per la migliore sceneggiatura a Maggie Gyllenhaall per “The Lost Daughter”, peraltro tratto da un romanzo di Elena Ferrante, il Leone d’argento per la migliore regia a Jane Campion per il tardo/torvo western “The Power of the Dog” e naturalmente la Coppa Volti a Penélope Cruz per la sua magnifica, toccante e matura prova in “Madres paralelas” di Pedro Almodóvar. Magari nessuno, tra critici e cronisti, aveva pensato all’attore filippino John Arcilla per il torrenziale “On the Job: The Missing 8”, 208 minuti, ma è possibile che la Coppa Volpi maschile attenga a una sorta di “quota asiatica”, venendo il presidente della giuria dalla Corea del Sud.
In generale un verdetto equilibrato, condivisibile, attento alle geografie, alle storie e alle questioni di genere. Da anni vado scrivendo che non ha proprio senso fare le pulci alle decisioni delle giurie, anche quando le giurie sembrano toppare. E qui nessuno ha francamente toppato: mi paiono un po’ troppo generosi, a scapito di altri film snobbati, come ad esempio “Ilusions perdues” di Xavier Giannoli, i premi andati a “Il buco” e a “The Lost Daughter”, ma siamo, appunto, nel campo aleatorio delle preferenze.
Non può sfuggire, infine, la sonora affermazione di Netflix, la piattaforma mondiale che il festival di Cannes continua a snobbare, assecondando una logica conservatrice e autolesionista, mentre Barbera intuì per tempo le sue potenzialità anche sul fronte del cinema d’autore: non a caso sia “È stata la mano di Dio” sia “The Power of the Dog” portano sui titoli di testa quella “N” in rosso su fondo nero.
A proposito di Sorrentino: il regista napoletano, di solito ironico se non addirittura sarcastico, s’è commosso sul serio ricevendo il Leone d’argento, secondo premio della Mostra per ordine d’importanza. Il suo film, molto bello, fortemente autobiografico ma per nulla vittimistico, è inciso sulla sua pelle di orfano prematuro. Per questo ha voluto ricordare un episodio di tanti anni fa: ai funerali dei suoi genitori, il preside della scuola autorizzò una rappresentanza ridotta al minimo, solo quattro studenti, e il giovanissimo Sorrentino ci restò male, ne soffrì. Avrebbe voluto l’intera classe attorno a sé. Stasera, idealmente, in Sala Grande c’erano tutti.

Michele Anselmi