La Mostra di Michele Anselmi / 17
Tutto si può dire meno che sia un verdetto equilibrato quello messo a punto dalla giuria della 79ª Mostra di Venezia, presieduta da Julianne Moore (in quota Italia c’era Leonardo Di Costanzo). Anzi mi pare decisamente squilibrato, Quasi tutti i premi principali parlano inglese, la qual cosa non è proprio un buon segno, specie all’interno di una rassegna che si vuole internazionale. Chi sperava, come il sottoscritto, che la fulva attrice statunitense esercitasse uno sguardo più ampio e curioso nei confronti dei film in concorso, be’ è rimasto deluso. D’altro canto, la selezione stessa, messa a punto dal direttore Alberto Barbera e dai suoi esperti, in qualche maniera ha suggerito la ripartizione, diciamo pure geografica e linguistica, dei premi. Forse l’anno prossimo sarà il caso d’essere meno pigri nel cercare; ricordo che su 23 titoli in gara ben 5 erano statunitensi, 5 francesi e 5 italiani (il resto del mondo in 8 film).
In ogni caso, ecco quanto deciso e comunicato nella corso della cerimonia ripresa in diretta da Raimovie. Partiamo dal Leone d’oro, andato un po’ a sorpresa, all’americano “All the Beauty and the Bloodshed” di Laura Poitres: una sorta di documentario creativo sulla controversa fotografa e attivista bisessuale Nan Goldin, nata a Washington e protagonista negli anni di una feroce battaglia, si direbbe quasi personale, contro la potente famiglia Sackler, proprietaria della società farmaceutica Perdue Pharma nonché produttrice dell’antidolorifico OxyContin, accusata di creare dipendenza gravissima (la stessa artista ne restò vittima a causa di una tendinite dolorosa). Diapositive, dialoghi intimi, fotografie e rari filmati ritraggono la militanza accanita di Goldin, la sua grinta tra impegno politico e ricerca estetica.
C’era di meglio da premiare col massimo premio? Secondo me sì, ad esempio il toccante “Love Life” del giapponese Koji Fukada o il robusto “Argentina, 1985” del sudamericano Santiago Mitre; ma tanto fare le pulci alle giurie è l’esercizio intellettuale più inutile che ci sia. Specie se ad essere premiate sono cineaste donne, sicché risulta poi difficile criticare.
Il secondo premio, cioè il Leone d’argento – Gran Premio della giuria è andato infatti a un’altra donna, l’esordiente francese di origine senegalese Alice Diop, per il suo “Saint Omer” e qui nulla da dire. Il film, destinatario anche dei 100 mila euro previsti dal Premio De Laurentiis per la migliore opera prima, è una lucida riflessione sui temi della maternità e dell’infanticidio, partendo da una storia vera, in chiave processuale, ma riletta alla luce del mito greco di Medea.
L’Italia festeggia con il Leone d’argento per la migliore regia andato a Luca Guadagnino, che però ha firmato, con “Bones and All” un film tutto americano, con attori americani. Di sicuro uno dei suoi migliori, costruito su una storia, tra orrorifica e romantica, popolata di cannibali, in piena era reaganiana. Nel ritirare il premio, l’emozionato Guadagnino ha voluto ricordate, e bene ha fatto, due registi iraniani attualmente incarcerati dal regime teocratico: Mohamed Rasoulof e Jafar Panahi.
E proprio su Panahi, in concorso con “No Bears”, suppergiù “Non ci sono orsi”, è piovuto il Premio speciale della giuria. Dopo il “flash-mob” di ieri, al quale aveva partecipato pure Julianne Moore, sembrava che “No Bears” fosse il candidato naturale al Leone d’oro, e invece no, smentite le voci della vigilia. Ma c’è una bella notizia: “No Bears” uscirà nelle sale italiane il 6 ottobre con Academy Two.
Forse non è tra i migliori film di Panahi, Leone d’oro qui al Lido nel 2000 con “Il cerchio”, ma certo colpisce per la lucidità, a tratti aspra e dolorosa, con la quale il regista indipendente si mette in gioco recitando nei panni di sé stesso in una storia sospesa tra cinema e realtà, coraggio e repressione, speranza e pessimismo.
Per il resto la giuria è andata sul sicuro, producendosi anche in qualche pleonastico doppione: due premi a “The Banshees of Inisherin”, cioè migliore sceneggiatura al regista Martin McDonagh e Coppa Volpi al bravo Colin Farrell; due a “Bones and All”, l’uno a Guadagnino e l’altro, il “Mastroianni” per il migliore interprete-rivelazione, alla giovane protagonista nera Taylor Russell. L’altra Coppa Volpi è andata all’australiana Cate Blanchett, protagonista assoluta di “Tár”, certo prodigiosa e carismatica nel ruolo di un famoso direttore d’orchestra in caduta libera. Ma mi chiedo: che cosa aggiunge un riconoscimento simile alla sua carriera oscarizzata?
Chi sono i grandi sconfitti di questa edizione? Direi l’italiano Gianni Amelio, il messicano Alejandro González Iñárritu e l’americano Darren Aronofsky, ma vedrete che Brendan Fraser, tenero protagonista di “The Whale” sotto un deformante trucco da obeso, si rifarà agli Oscar.
Preferisco sorvolare sulla prova della “madrina” Rocío Muñoz Morales, limitandomi a ripetere la domanda già fatta undici giorni fa: ma perché prendere un’attrice spagnola per le cerimonie d’apertura e di chiusura?
Michele Anselmi