Senza girarci troppo intorno, “Il Lord del brivido. Christopher Lee da Dracula a Lo hobbit” è il titolo indispensabile di questa prima parte di 2019 per ogni amante del fantastico. Fabio Giovannini, prestigiosa e storica firma della saggistica cinematografica che più si attaglia agli ultrà del gotico, analizza la carriera del grande attore inglese, centrando quell’equilibrio che spesso sfugge a chi si avventura in percorsi del genere. Pubblicato da Shatter Edizioni, infatti, il volume riesce ad essere scientificamente informato e ugualmente appassionato, classico nel suo approccio cronologico quanto aperto in un capitolo finale dedicato alle esperienze dell’attore negli audiolibri o nei videogiochi. Abbiamo incontrato Fabio Giovannini, per una conversazione a tutto tondo sul volume.

In “Il Lord del brivido” spieghi la tua fascinazione per Lee a partire da quel fantastico cinematografico di cui l’attore inglese è una delle stelle fisse. Puoi parlarcene?

Christopher Lee ha fatto parte delle star del fantastico che mi hanno affascinato fin dall’adolescenza, insieme a Peter Cushing, Vincent Price e i loro predecessori Boris Karloff e Bela Lugosi. Direi che trovavo indivisibili proprio Lee e Cushing, una coppia cinematografica straordinaria. Non perdevo un solo loro film che fosse possibile rintracciare nelle sale italiane, non senza difficoltà in un’epoca ancora senza videocassette o Internet. Eppure quella ricerca era appassionante e ha contribuito ad aumentare il mio interesse per i due grandi attori e i loro film. Con grande soddisfazione ho poi potuto più volte incontrare di persona Lee e intervistarlo, mentre mi rammarico di non aver potuto fare altrettanto con Cushing, già malato e tenuto alla larga da ogni contatto pubblico dalla sua assistente-segretaria e dal suo agente.

Ci sono dei personaggi che ritornano nella carriera di Lee: sono legati ad universi specifici e ben delineati. Penso a Dracula, a Fu Manchu, a quelli afferenti alla letteratura di Conan Doyle. In che modo la fisicità dell’attore è stata in questo senso determinante per la scelta da parte dei produttori e dei registi?

Di certo il “corpo” e il “volto” di Lee sono stati sempre importanti, oltre alle sue capacità recitative. La statura, il viso che per gli angloamericani era latino (del resto era di madre italiana) e quindi straniero, le mani dalle dita lunghe, gli occhi intensi, hanno consentito all’attore di risultare perfetto per incarnare i tre grandi personaggi dell’immaginario Vittoriano: Dracula, Fu Manchu e Sherlock Holmes.

Nel tuo libro dedichi una sezione alle esperienze italiane: da “Il castello dei morti vivi” a Steno fino ai film con Margheriti e Bava Sr. e Jr. In che modo questi titoli aprono un nuovo percorso nella sua carriera?

In realtà proseguono il percorso iniziato da Lee con la Hammer e ne utilizzano la popolarità anche in Italia. Tuttavia il cinema italiano del terrore aveva una sua peculiarità che ha permesso all’attore di interpretare ruoli forse più sfaccettati e sostanziosi di tanti altri. In particolare, il gotico italiano ha sfruttato spesso in bianco e nero le sue fattezze, con risultati interessanti.

La Hammer e Lee. Un matrimonio che, evidenzi bene nel testo, ha avuto anche le sue difficoltà. Parliamo della nascita del divo Lee e dell’ansia di staccarsi dalla famiglia di Bray, a volte troppo asfissiante…

Alla Hammer l’attore doveva il suo successo, il trampolino di lancio di tutta la sua carriera successiva, grazie alla parte del mostro in “La maschera di Frankenstein” e poi del più famoso tra i vampiri con “Dracula il vampiro”. Ma le pressioni della Hammer per reclutarlo ripetutamente in ruoli horror non piaceva a Lee, tra l’altro molto sensibile all’aspetto economico: la Hammer, per quanto arricchita dai film della sua stagione d’oro, era comunque una piccola casa produttrice, sempre orientata al massimo risparmio anche nelle paghe degli attori. Lee si sentiva sfruttato e alla fine, con la sua partenza per gli Usa, il gemellaggio con la Hammer si interruppe.

Oltre la Hammer, sullo stesso tenore, ci sono i film per la rivale Amicus e alcuni prodotti dallo stesso Lee. In che modo questi aprono un nuovo e più libero cammino?

Le altre produzioni del genere horror non offrirono a Lee dei ruoli significativi, strumentalizzandolo soprattutto come richiamo per il pubblico. Credo che il meglio, negli anni Sessanta, Lee abbia continuato a darlo proprio per la Hammer. Anche la sua unica esperienza come produttore, per “Il cervello dei morti viventi”, non ha portato un esito eccezionale.

Nella carriera di Lee c’è stato un momento in cui la definizione della sua tipizzazione di attore si è trovata davanti ad un bivio: continuare nel nero oppure aprirsi ad un cinema meno di genere e più aperto? Attraverso una dichiarazione dell’attore spieghi bene questo momento…

Le dichiarazioni di Lee che testimoniano come si sentisse prigioniero del cinema horror sono centinaia. Non perdeva occasione per ribadire che aveva interpretato Dracula solo poche volte e che non recitava più in film dell’orrore da decenni. In tarda età maltrattava i giornalisti che gli ricordavano la sua carriera precedente, perdendo a volte la sobria eleganza del gentleman. Era per lui una vera ossessione.

Da Dante a Spielberg, da Burton a Lucas fino a Jackson, il cinema della nuova Hollywood e oltre riconosce all’attore lo status di culto, scritturandolo per pellicole, molto spesso, fortunatissime al botteghino. La figura di sinistro vegliardo per alcuni è addirittura la declinazione attoriale migliore dell’attore, che ne pensi?

Quando Lee appariva in un film, negli ultimi anni della sua carriera, evocava immediatamente tutta la sua lunga storia di attore e la sua innegabile identificazione con figure tenebrose e minacciose. Quello che l’attore sentiva come un handicap (la sua standardizzazione in attore dell’horror) non si poteva cancellare e anzi contribuiva al suo permanente successo, persino da anziano quasi centenario.

“Il Lord del brivido”, differentemente da altri testi non solo italiani, annette una parte dedicata al contributo di Lee al di là del cinema e la televisione, toccando la sfera più genericamente “mediale”. Parliamo di questo?

Pochi forse conoscono la ricca attività di Lee, ad esempio, nei videogiochi e negli audiolibri. La sua voce eccezionale era ideale per narrare le storie di Edgar Allan Poe o leggere Bram Stoker. Per non dire della sua ultima fase come cantante “metal”. Mi sembrava importante darne conto. Tra l’altro, la popolarità di Lee continua postmortem, grazie ai videogiochi. A fine gennaio 2019, infatti, è stata distribuita dalla Electronic Arts e DICE un aggiornamento per il gioco “Star Wars Battlefront 2” dedicato alle Guerre dei Cloni: l’update aggiunge il personaggio del Conte Dooku, visivamente identico a Christopher Lee nei due film della saga di “Guerre stellari”.

Personalmente trovo che due tra le interpretazioni più sottilmente ambigue dell’attore siano, all’opposto, in “The Devil Rides Out” e “Rasputin – Il monaco folle”, entrambi film a cui Lee era molto legato. Ci ricordi il tuo parere al riguardo?

Il primo, “The Devil Rides Out” (che non venne mai distribuito in Italia, forse perché trattava di un tema fastidioso come il satanismo) vedeva Lee in un ruolo di “buono” e gli permetteva di dimostrare che non era efficace solo in parti di mostro o vampiro. Il secondo, “Rasputin – Il monaco folle”, ripresenta l’attore nelle vesti di un villain, ispirato a un personaggio realmente esistito. Nonostante le molte libertà rispetto alla verità storica, il film lascia la possibilità a Lee di dare una delle sue interpretazioni più efficaci, tanto che persino una figlia del vero Rasputin si complimentò con lui. Erano due prodotti Hammer che confermano il proficuo legame, al di là dei dissidi, tra la casa di Bray e Christopher Lee. Che l’attore lo volesse o no, Lee era e rimarrà soprattutto un’icona del brivido e dell’inquietante.