Un docente universitario, il signor Kusakabe e le sue due figlie, Satsuki, undici anni, e Mei, quattro, si trasferiscono nella loro nuova casa in campagna. I tre abiteranno vicino all’ospedale dove è stata ricoverata la madre delle due bimbe. Esplorando i dintorni, Mei fa conoscenza con Totoro, creatura rara e affascinante, spirito della foresta, grande orso tutto pelo e bocca spalancata a mezzaluna. Lo strano personaggio è spesso accompagnato dai suoi compari, identici a lui fuorché per stazza: il più piccolo è bianco (Chibi-Totoro), mentre il medio è blu (Chū-Totoro). Da quel momento l’occupazione preferita di Mei sarà quella di mettersi sulle tracce di Totoro per giocare e passare del tempo in sua compagnia. La piccola scoprirà i diversi e impressionanti poteri del suo nuovo amico che ama circondarsi di bizzarri individui (il gattobus e gli acchiappafuliggine).

Secondo lungometraggio di Hayao Miyazaki all’interno della bottega di produzione Ghibli, Il mio vicino Totoro incontrò al suo rilascio un tale successo sì che nel 1988 segnò un punto di svolta nell’incremento delle pellicole d’animazione. Totoro, il grande spirito-orsacchiotto, ad oggi è emblema ufficiale della fabbrica dei sogni più famosa in Giappone. Contrariamente ai racconti dark/fantasy di Nausicaa della valle del vento e La principessa Mononoke, Il mio vicino Totoro rispecchia il lato solare e ottimista del cineasta, il suo volto fanciullo, un aspetto che ritroveremo in seguito in Kiki-consegne a domicilio e nel più recente Ponyo sulla scogliera. La sua favola ecologica dimentica il mondo medievale e post-apocalittico per inscriversi in un universo contemporaneo. L’ambientazione è quella della campagna giapponese degli anni Cinquanta. Trascorsa la sua infanzia in quei luoghi e in quel tempo, l’autore conosce bene quel che disegna: linee e colori saranno lo specchio di un’anima trapunta di ricordi autentici. La memoria di un’esistenza riportata sul grande schermo dà adito a una lunga introduzione. Qui si descrive la vita quotidiana dei Kusakabe (Meï, Satsuki e il loro papà) nella loro nuova casa e il loro rapporto con una natura che vive in armonia con i suoi abitanti.
Per questo, meno pessimista delle altre pellicole Ghibli, Il mio vicino Totoro non riprende le battaglie care al cineasta. Non sottoposta a minacce, ammansita, madre natura appare qui come un bozzolo protettivo in cui i bambini possono fiorire: una visione idilliaca le cui radici affondano nel passato fra le memorie fanciulle del regista. Il tratto della matita si fa sognante e leggero: linea dopo linea prende vita una vegetazione lussureggiante, nido di una fauna fantastica. Lo spettatore è immerso, meravigliato della natura che lo circonda. Quello di Miyazaki è un approccio del tutto sensoriale dove ad essere sollecitati sono i nostri occhi e le nostre orecchie. Sono inoltre presenti richiami culturali più occidentali (la discesa di Mei nel regno di Totoro ricorda Alice nel paese delle meraviglie). L’inventiva dell’artista, in perpetuo fermento, offre alcune idee visive destinate a fissarsi in modo permanente nell’immaginazione. Ne derivano scene uniche: quella sotto la pioggia alla fermata dell’autobus o quella del sogno ad occhi aperti in cui i tre Totoro fanno crescere un’intera foresta. Se gli adulti preferiranno i lavori più ambiziosi e dark dell’autore (Il castello errante di Howl, ad esempio), se la tenerezza e le risate argentine di Totoro non hanno il potere e il respiro epico di Nausicaa, chi non ha scordato la propria infanzia riconoscerà in quest’opera un lavoro di alta qualità, un cartone sofisticato dove l’immagine è sogno a portata di mano, “spettacolo spettacolare” per cui i bambini un po’ cresciuti andranno a nozze. Sabato 12 e domenica 13 dicembre al cinema con Lucky Red.

Chiara Roggino