E’ uscito un nuovo romanzo del re del cyberpunk William Gibson: Zero History. Interessante perché nel fiume di consensi spesso acritici nei confronti di Internet, la voce di Gibson alimenta il sospetto che non è tutto oro ciò che luccica. Anzi. L’autore mette in guardia dal fanatismo del web e ci avvisa che corriamo tutti il rischio di essere sepolti da un’orgia di collegamenti, tweet e messaggistica istantanea, il cui flusso spasmodico e spesso immotivato rende la psiche umana succuba e passiva. Lo diceva già Niklas Luhman, il filosofo tedesco, quando scriveva che “troppa informazione non illumina più”.
Nel suo romanzo Gibson mette alla berlina gli “effetti collaterali” dei social network, un moloch che domina la rete e che esilia la creatività individuale, cospargendo ovunque tentativi di partecipazione collettiva che si traducono in realtà in meri simulacri, alla stregua dei sepolti imbiancati. La proposta, sicuramente shoccante, è che meglio autoesiliarsi e sparire dal web, piuttosto che partecipare all’infernale videogioco dell’annullamento della propria personalità.
L’ostentazione in rete gratifica perché ci rende famosi, è vero. Ma per un brevissimo tempo illusorio, perché la dinamica stessa della rete è simile a quella di un mostro onnivoro e insaziabile, che tutto consuma e annulla nel medesimo istante in cui lo fagocita. La vanità dell’apparire sembra saziata, ma presto ci si convince che è già passato. Viene in mente la profezia di Andy Warhol, quando ipotizzava che presto sarebbe arrivato il tempo in cui tutti avrebbero beneficiato del loro momento di celebrità. Quel tempo è arrivato. Ma il costo della vanità è troppo alto per potere accontentare l’anima.
Roberto Faenza