L’angolo di Michele Anselmi

Quest’anno, come si sa, il Nobel per la letteratura non verrà assegnato. Lavori in corso all’Accademia di Svezia dopo il brutto scandalo del 2018. L’anno prossimo forse ne assegneranno due. Vedremo. In compenso si stanno moltiplicando i film sul tema. Prima l’argentino “Il cittadino illustre”, poi l’italiano “Il Premio”, adesso l’inglese/svedese “The Wife. Vivere nell’ombra”, nelle sale con Videa da giovedì 4 ottobre. Qui il massimo riconoscimento letterario, sogno di ogni scrittore e scrittrice, diventa lo spunto per una resa dei conti in famiglia, anche per un’impietosa riflessione sui temi del talento e dell’ipocrisia.
Nel prendere in mano l’omonimo romanzo dell’americana Meg Wolitzer (2003, da noi edito da Garzanti), il sessantenne regista svedese Björn Runge opta per una messa in scena di forte impianto teatrale, con qualche flashback utile a chiarire le dinamiche psicologiche e la verità degli eventi.
Ma il clima da gioco al massacro è subito chiaro. Quando da Stoccolma chiamano all’alba il famoso scrittore Joe Castleman per annunciargli la buona novella, appunto il Nobel per la letteratura, il volto della moglie Joan si irrigidisce in una strana smorfia. Dovrebbe essere contenta, invece il viaggio in Concorde verso la Svezia (siamo sul finire degli anni Ottanta, pare di capire, echeggia una canzone di Joe Cocker) si trasforma nel prologo di un’amara, pure imbarazzante, resa dei conti.
Presto scopriamo che è stata Joan a scrivere, nel tempo, i romanzi del venerato marito, vivendo appunto nell’ombra, dando spessore narrativo e forza di stile a spunti spesso esili; e intanto tirando su i due figli, accettando le continue scappatelle del consorte malaticcio, comportandosi, allo stesso tempo, da moglie premurosa e da “ghost writer” solerte. Il Nobel fa deflagrare il tutto, l’equilibrio coniugale miracoloso, e forse effimero, viene messo alla prova dalla sorridente ritualità svedese; e intanto Joan, pure insidiata da un giornalista curioso che sente puzza di bruciato, comincia a pensare di aver vissuto per quarant’anni murata viva in una grande menzogna. Si preannuncia il peggio, come avrete capito.
Jonathan Pryce e Glenn Close, doppiati da Gabriele Lavia e Ludovica Modugno, duettano secondo un copione abbastanza prevedibile, da “spogliarello morale” alla Albee. Non sbaglia Carla Chelo, quando recensendo il film per Bookciakmagazine.it, cita una celebre battuta di Truman Capote: “Si versano più lacrime per le preghiere esaudite che per quelle non ascoltate”. In effetti, quella che doveva essere una festa, la consacrazione di una carriera, si trasforma per lo stordito romanziere in una specie di Calvario, un incubo a occhi aperti, una ballata del disamore; a nulla varrà il discorso affettuoso, trapunto di allusioni e riconoscenza, che Castleman dedica alla moglie durante il pranzo di gala. Anzi…
Naturalmente il film invita, magari senza volerlo, a prendere partito tra i due: probabilmente le donne si sentiranno solidali nei confronti di Joan, decisa a rompere il velo della finzione e a riprendersi quanto le spetta; mentre è possibile che gli uomini vedano con più indulgenza l’anziano scrittore, vanesio e pavido, pure infragilito dal cuore ballerino, costretto a misurarsi con un inatteso terremoto emotivo che tutto rimette in gioco.
Il film asseconda l’istrionismo dei due divi in cartellone, tra sguardi di fuoco e implorazioni di grazia. Nella prospettiva del regista nessuno dei due è davvero innocente, e del resto la “ditta” ha funzionato per anni, con vantaggi per tutti. Ma il verme ha lavorato in profondità. Nel cast spuntano anche Christian Slater e una quasi irriconoscibile Elizabeth McGovern.

Michele Anselmi