Tempo fa ho scritto per Cinemonitor un articolo sul mondo dei coach partendo da un libro di Ivana Chubbuck, Il potere dell’attore. L’attività dei coach resta per il cinema e il teatro italiano abbastanza sconosciuta. Chi sono questi “trainer” della recitazione? Un’attrice che ha interpretato un piccolo ruolo nel film che sto realizzando, Anita B., mi ha mandato una sua riflessione che cito qui di seguito per intero [le note tra le parentesi quadre sono mie]. L’attrice si chiama Evi Unterthiner, lavora in Alto Adige e in Bosnia e opera all’interno di un gruppo teatrale d’avanguardia.
Riguardo la figura del coach: è un lusso avere una persona che legge il copione con te, avere un supporto professionale che apre la tua visione, ti accoglie nella propria fragilità di attore. Crepino gli artisti diceva Tadeus Kantor, crepino gli attori aggiungo io. Il teatro è un’ arte sporca, è un mélange di tante altre arti. Un attore/attrice dovrebbe intendersi di musica, saper usare la voce, recitare, saper muoversi in scena, saper ballare, avere una visione di spazio e di gioco… difficile eccellere e sapere fare tutto ciò. L’attore quindi domina il campo dell’emozione . Sa e-muovere: smuovere se stesso per smuovere testa e cuore dello spettatore. Ogni musicista, danzatore o sportivo si allena tante ore al giorno per avvicinarsi al sublime e allargare i propri limiti. L’attore invece no, non ha bisogno di allenarsi o prepararsi, entra in scena ed emoziona… spesso solo se stesso, visto il suo mondo interiore tanto ricco. Dovrebbe avere l’umiltà di un minatore… cercare, scavare, essere lucidi nel buio, notare ogni cambiamento di terreno, sentire e intuire la vena d’oro e abbandonarsi con fiducia ad essa. Pierre Byland, un mio maestro di teatro, parlando della figura del clown, dell’originalità e creatività dell’attore raccontava: sempre in America i clown del circo hanno raccolti tutti i numeri in un gran libro. Ogni gag o lazzo era registrato: la caduta dalla scala n. 398, il secchio d’ acqua n. 101, l’ incazzatura tra coppia comica n.564 ecc. Pierre ci diceva: in fondo non si inventa più niente o poco, tutte cose già viste, assorbite e digerite… quindi al massimo arriviamo a produrre una ‘cagata’. Se va bene il nostro inghiottito e rimacinato uscirà da noi ben formato e noi andremmo dalla mamma per far vedere il nostro prodotto con orgoglio. Se ci va male non uscirà niente perché siamo costipati o peggio ancora esce senza controllo: in diarrea… ma come lo giri sempre di una ‘cagata’ si tratta.
Istinto o ragione [come proponeva Diderot nel suo celebre saggio sull’attore]? Essere o avere? Non lo so. Ho vissuto 10 anni con un pappagallo. Pappagallo Jakob, un capo branco della razza amazzone, un animale alfa dominante… una bestia. Vivendo tra essere umani pensava anche lui di essere un uomo. Mangiava a tavola con noi, voleva il suo piattino e il suo bicchiere. Non voleva bere come un uccello inclinando la testa verso il bicchiere, ma voleva bere come noi… il bicchiere doveva essere inclinato verso il suo becco . Con uno sguardo ti diceva basta e tu potevi posare il bicchiere vicino al suo piattino. Quando vedeva o sentiva passare i corvi, non rispondeva con un “cra cra”, ma diceva “ciao”. Quando voleva dormire si doveva fermare il mondo, non si poteva andare in macchina o in barca… nessun movimento doveva disturbare il suo sonno, altrimenti si agitava come un invasato e urlava come un dannato. Era molto sensibile alle voci delle persone. Chi aveva una voce irritante doveva lasciare la stanza perché Jakob a volume altissimo gli parlava sopra. Per farlo addormentare dovevi tenergli la “manina” e cantare qualcosa con lui… insomma, vivevo con un “dittatore verde”. Era convinto di appartenere alla razza degli essere umani. Jakob attaccava gli altri pappagalli o volatili. Un giorno davo da mangiare a un pulcino e lui per gelosia gli staccava la testa con un morso: Jack the Ripper. Un’ altra mattina entrando in stanza sua mi volava addosso e mi staccava con un bel morso mezzo labbro perché la sera prima avevo fretta, non gli tenevo la “manina” e non cantavo con lui… non lo scordava durante la notte e la mattina si vendicava: un gesto d’istinto ragionato e covato? Jakob è arrivato a casa nostra a causa di un laboratorio teatrale tenuto con gli utenti del centro di salute mentale di Merano. Una ragazza bosniaca non riusciva a ricordare niente di quello che faceva un istante prima, imitava però benissimo gli altri, quasi all’unisono. Quindi le abbiamo detto di fare l’eco degli altri attori durante lo spettacolo. Questa ragazza con capiva la parola eco, allora le abbiamo detto: ripeti come un pappagallo. Lei si è calata pienamente nel ruolo, non è andata nella foresta amazzonica, ma si è comprata un pappagallo: Jakob! Naturalmente non riusciva a gestirlo e alla fine lo abbiamo preso noi.
Mi piace la fase della creazione di uno spettacolo e del proprio ruolo: studio o scrivo il testo, costruisco i movimenti del personaggio, dò corpo alla sua storia e mi informo del suo periodo storico…. poi lascio andare… quello che è stato “incamerato”, se è buono, apparirà… probabilmente. Mi concentro su quello che accade in scena: sento il partner, il pubblico, lo spazio, l’atmosfera in sala… lascio aperto al caso… forse entra qualcosa di nuovo, inaspettato che mi smuove diversamente. Mi piace questo senso di abbandono e rischio. Se entrassi in scena senza preparazione, entrerei con preoccupazione, che mi toglie concentrazione. Come entro in scena? Con l’istinto o con la ragione? Uso quello che secondo me in quel momento è necessario, sono due alleati che cerco di usare ad arte per giocare meglio… e forse non sempre riesco a distinguerli. Non entro in scena con le pallottole vere se urto un mio partner… se mai mi faccio bastare la pistola vera per calarmi meglio nel ruolo. La sessualità come istinto primario [è tra gli elementi fondanti del metodo Chubbuck]… metterei la fame come istinto primario che include naturalmente: la fame vera e propria che chiede nutrimento per il corpo, la fame di affetto, la fame di sesso, la fame di potere, la fame di sicurezza, la fame di bellezza (bellezza come armonia che fa bene all’anima)…I propri traumi, i propri dolori, le domande: chi sono e dove vado… sicuramente sono molto importanti. Ogni tanto ho la capacità di darmi fastidio da sola con queste domande. Allora esco e cammino, camminando i pensieri si calmano, quello che era importante perde di peso, diventa leggero ed evi-mero [Evi è appunto il nome dell’attrice che sta scrivendo]. Mi ricordo la mia insegnante di danza: un giorno ci fa stare in una posizione terribile per 20 minuti (seduti sulle punte dei piedi) e noi ci lamentavamo e bestemmiavamo in silenzio. A un certo momento lei ci guarda e ci dice: ma come pensate a poter sopportarvi per una vita se non riuscite neanche a sopportavi in un momento difficile per 20 minuti! Strano che si lavora sempre sui momenti dolorosi della propria vita e quasi mai sulle gioie della vita… abbiamo paura di qualche maledizione divina?
Qui sotto, qualche frase di chi sa spiegare o definire meglio il teatro e il ruolo dell’attore.
Tadeusz Kantor: considero la vita e la creazione come un viaggio nel tempo fisico e interiore, nel quale la speranza si sviluppa senza sosta da incontri imprevisti, da prove, dall’attesa di qualcosa d’inatteso deviazioni, dalla ricerca della giusta strada. E la speranza è senza dubbio ciò che muove tutto. Creare un teatro che abbia una forza primitiva e sconvolgente d’azione! Caratteristico della creazione è lo stato fluido, mutevole, transitorio effimero – come la vita stessa. La realizzazione dell’impossibile è il fascino supremo dell’arte e il suo segreto più profondo. Per suscitare un campo d’attrazione dell’impossibile, ci vuole un’ingenua mancanza d’esperienza e una disposizione alla rivolta, alla negazione, alla resistenza, all’inversione, all’insaziabilità a uno stato in cui ci si muove intorno al vuoto assoluto.
Rocco, 9 anni di Lana: secondo me teatro è una cosa bellissima , però solo se la gioco bene.
Aldo, 9 anni di Lana: il compito dell’attore è fare viaggiare nella fantasia e distruggere le malinconie nel cuore , quindi attivare la macchina del cuore. La macchina del cuore è una specie di bomba che distrugge i sentimenti brutti.
Eimuntas Nekrošius: nell’arte bisogna essere biologicamente puri. Il cuore dice tutto, non la testa. Quando il cuore inizia ad agitarsi è come un avvertimento che qualcosa non funziona. Non è una metafora, è un fatto fisiologico. Il cuore è l’organo che per primo reagisce alla paura: il cervello ancora dorme quando il cuore già batte follemente. Unire cervello e cuore, spazio e tempo, soggetto e mondo. L’attore è colui che riesce a essere se stesso, una persona, non tanto a dispiegare virtuosistiche tecniche recitative, quanto a esprimere verità e umanità, perché il fare teatro deve cambiare la vita di chi lo fa. Il teatro è la più bassa forma d’arte, perché mette in gioca una quantità minima di intelligenza, talento e lavoro. Vedo una grande sproporzione fra quello che la gente di teatro dà, e quello che riceve di cambio: notorietà, riconoscimento e successo. E’ un paradosso penoso. A volte me ne vergogno. Quando mi trovo a parlare con musicisti importanti, medici e professionisti, mi sento uno zero assoluto. Sono cresciuto nel campo di patate. Che cos’è il teatro per la gente di campagna? L’attività inutile di una persona inutile. Il lavoro del regista è puro artigianato. Il teatro come un cambiamento di stato fisico. Il palcoscenico non è un luogo di mera illusione. Stare là sopra è terribilmente pericoloso. I confini fra il teatro e la vita sono stati oltrepassati, e perfino quelli fra la vita e la morte.
Loris, 9 anni di Lana: il teatro mi aiuta a capire le cose molto belle.
Antonin Artaud – il teatro e il suo doppio: il teatro essenziale è come la peste, non perché è contagioso, ma perché come la peste è la rivelazione, la trasposizione in primo piano, la spinta verso l’esterno di un fondo di crudeltà latente attraverso il quale si localizzano in un individuo o in un popolo tutte le possibilità perverse dello spirito. Si direbbe che attraverso la peste scoppi un gigantesco ascesso collettivo, morale quanto sociale; non diversamente dalla peste, il teatro esiste per far scoppiare gli ascessi collettivi. Il teatro, come la peste, scioglie conflitti, sprigiona forze, libera possibilità, e se queste possibilità e queste forze sono nere, la colpa non è della peste o del teatro, ma della vita.