L’angolo di Michele Anselmi
Fossi uno spettatore pagante, dovendo scegliere tra i nove film che escono giovedì 9 febbraio nel bel mezzo del festival di Sanremo, non avrei dubbi: andrei subito a vedere “Tár” (accento rigorosamente acuto sulla “a”) di Todd Field. In anteprima mondiale alla Mostra di Venezia 2022, dove vinse la Coppa Volpi per la migliore attrice protagonista, Cate Blanchett naturalmente, prodigiosa per sottigliezza e sfumature, fisico del ruolo, ricchezza espressiva, il film s’è distinto anche ai Golden Globe e mi pare sia candidato a sei premi Oscar. Al Lido fu accolto da parecchi critici, non da me in verità, con annoiato rispetto; io trovo invece che il regista e attore americano, qui pure sceneggiatore, abbia saputo rendere esemplare questo ritratto di donna “speciale”, in bilico tra successo e caduta.
Anche qui, come in molti film recenti, la pezzatura è lunga: 158 minuti. Lydia Tár è un carismatico direttore d’orchestra, un talento assoluto della bacchetta. Bionda, magra, elegante nei suoi completi pantalone preferibilmente neri, la musicista fu benedetta da Leonard Bernstein e adesso gestisce un enorme potere. Vive a Berlino, dove dirige la più celebre orchestra al mondo, insieme all’ex compagna, la violinista Sharon, e alla di lei figlia Petra (le fa “da padre” dice).
Tár è una donna tosta e determinata, sostiene che il talento delle donne emerge, sempre che ci sia, detesta il “politicamente corretto” e dice pane al pane. Poi, certo: come la nostra Beatrice Venezi, vuole essere chiamata “direttore”, non “direttrice”. Gli incapaci che la venerano sono definiti sprezzantemente “robot”, ma pure lei custodisce qualche scheletro nell’armadio: licenziamenti umorali, storielle con orchestrali e allieve, favoritismi, bugie su nascita e provenienza sociale, eccetera. Il problema è semplice: e se tutto venisse fuori? Sarebbe, d’un colpo, la fine della dorata carriera. E mi fermo qui.
Il film è frutto di una dettagliata ricerca sul campo, intendo riferimenti, omaggi, gergo, atteggiamenti, ma io non sono del ramo e quindi potrei sbagliarmi. Però è difficilmente discutibile il fulgore estetico della messa in scena, tra morbidi piani sequenza e inquadrature fisse senza campi e controcampi sui visi degli attori (magistrale, per stile di ripresa, la conferenza iniziale); e molto mi piace il rigore col quale Todd usa la musica, perlopiù in chiave diegetica, cioè proveniente dall’interno della scena, degli ambienti, mai a commento spalmato.
Ha detto il regista in una bella intervista rilasciata a “Io Donna” qualche tempo fa: “Lo sappiamo tutti come funziona quando sono gli uomini ad abusare del loro potere, perché sono gli uomini ad avere il potere, da sempre. Donne e gay sono stati tagliati fuori dai giochi, perciò in qualche modo si può dire che questo film sia una favola, un racconto lontano dalla realtà”. E ancora: “Ciò che volevo esplorare era il funzionamento del meccanismo, perché il potere per durare richiede complicità, impone che un sacco di gente rivolga lo sguardo altrove e permetta gli abusi”. Non so se sia proprio così, ma certo il punto di vista è interessante. Anche se, come sentiamo dire nel film, “Le macine di Dio girano lente e polverizzano inesorabili”.
Naturalmente Blanchett, classe 1969, è magnifica per come maneggia la parabola della sua Lydia (se la cava bene anche al pianoforte oltre che alla bacchetta di direttore), ma non sono da meno gli altri interpreti: da Noémi Merlant a Nina Hoss, da Mark Strong alla vera violoncellista Sophie Kauer.
Ammetto: non ho rivisto il film doppiato in italiano, dove Blanchett “indossa” la bella voce di Emanuela Rossi, ma spero che il distributore, la Universal, abbia mantenuto la ricchezza linguistica di sapore internazionale: molti dialoghi sono in tedesco e alcuni in francese, basterebbero dei sottotitoli, in quelle parti, per non rovinare tutto.
Michele Anselmi