Regista controverso e imprendibile, sempre in bilico tra genere e autorialità, Michael Winner rimane uno dei grandi enigmi del cinema europeo. A partire dal volume Il cinema di Michael Winner (Il Foglio letterario), il curatore Fabio Zanello riflette sulle varie facce della personalità di un cineasta che ha saputo attraversare quarant’anni di storia del cinema con coraggio, spudoratezza e lampi di vero talento.
È possibile inserire la prima parte del lavoro di Michael Winner all’interno del più ampio perimetro del free cinema?
F.Z. Sì, assolutamente. Se facciamo riferimento ai suoi film dei Sessanta, del cosiddetto periodo inglese, non si può affatto prescindere dal free cinema, che personalmente apprezzo più della coeva nouvelle vague francese. Come colleghi suoi connazionali, quali John Schlesinger, Karel Reisz, Tony Richardson e l’americano Richard Lester, Winner, almeno all’inizio, aveva intrapreso un percorso autoriale che lo portava a raccontare in maniera cronachistica, formalmente ricercata e piuttosto pop la Swingin’ London. Mi vengono in mente dei titoli come Some Like it Cool! (1961), I’ll Never Forget What’s is name (Il complesso del sesso, 1967), The Jokers (I ribelli di Carnaby Street, 1967), interpretati questi ultimi due da un giovane Oliver Reed. Possiamo dire che a quell’epoca era un regista piuttosto festivaliero, anche se aveva già frequentato i generi con un thriller psicologico da riscoprire come Out of the Shadow (1960), dove recitava Terence Longdon, che molti ricorderanno nel ruolo di Druso nel Ben-Hur (1959) di Wyler.
La ribellione al “sistema”, qualunque esso sia, è una delle costanti del regista inglese. In che modo, questa, si declina nei polizieschi?
Sono d’accordo. Per esempio in Scorpio (1973), il suo primo poliziesco americano c’è un uso splendido e anomalo di Burt Lancaster, poiché lui interpreta Cross, una scheggia impazzita della CIA, che va assolutamente eliminata. Un personaggio con cui è difficile empatizzare. Lancaster qui è la vittima di una caccia all’uomo, ma anche cinico e doppiogiochista. Ma anche l’architetto Paul Kersey, il famigerato giustiziere della notte nella trilogia winneriana, non provoca nessuna catarsi nello spettatore, che assiste alla sua vendetta. Quando fredda i criminali, Kersey non è solo un ribelle contro una giustizia negligente e buonista, ma obbedisce alle pulsioni omicide di una mente sconvolta dalla violenza, che hanno subìto moglie e figlia. Infatti nel romanzo di Brian Garfield, da cui è tratto il primo Death Wish (titolo originale de Il giustiziere della notte), Kersey è uno psicopatico peggiore dei criminali che combatte. Winner ha metabolizzato questo aspetto nella sua rappresentazione. Vedere Bronson che fa scempio di delinquenti è dunque diverso. Lui, insomma, non è un eroe fumettistico come Sylvester Stallone, Jean-Claude Van Damme, Dolph Lundgren e Chuck Norris, bensì è un anti-eroe ossessionato che provocatoriamente il suo regista presenta come un paladino degli oppressi, seguace della legge del taglione, sconfinando a tratti nell’apologia del fascismo e nel populismo a buon mercato. Per farla breve, Winner infonde nei suoi personaggi uno spirito ribellistico, che faceva parte del suo DNA. Anche nei suoi film hollywoodiani c’è sempre un compiacimento verso la violenza e il sesso, degno dell’exploitation più triviale. Un approccio che ha procurato al regista fan e detrattori al tempo stesso, questo è indubbio.
Se si dovesse isolare una sola ossessione tematica del lavoro di Winner quale potrebbe essere?
Ti rispondo senza esitazioni: l’antimanicheismo. Non c’è distinzione fra buoni e cattivi nelle sue opere. Di Paul Kersey abbiamo già parlato, ma anche in Improvvisamente un uomo nella notte, in cui Marlon Brando interpreta Quint, un giardiniere sadico, perverso ed erotomane, la tecnica winneriana di rivoltare i personaggi come un guanto è portata alle estreme conseguenze. Nelle prime scene del film vediamo Quint giocare con due bambini in un’idilliaca campagna. Infila un sigaro acceso fra le labbra di un rospo, per divertire i suoi piccoli amici. Peccato che il rospo si gonfi fino a scoppiare, facendo fuggire la bambina inorridita. Quint e i due ragazzini sono gli attori partecipi di questa mostruosità. In una sola scena è immediatamente percepibile il sadismo e la deviazione, che permeano l’uomo. Insieme a Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, Improvvisamente un uomo nella notte completa il dittico maledetto della carriera cinematografica di Brando.
Quello del regista inglese non è un cinema per signore. I toni, non di rado, esasperati hanno attirato le reazioni della critica e del pubblico. Cos’è cambiato da allora?
È cambiato che nel cinema americano di oggi, e parlo di quello realizzato dagli studios, i toni non sono più brutali, esasperati e anarchici. Le esplosioni sono effetti digitali, le torture sono confinate al fuori campo, il sesso è suggerito e non esplicitato. C’è nell’America degli anni Zero un’ondata di perbenismo ipocrita, simile al maccartismo e la situazione è destinata a peggiorare dopo scandali come il Sexgate. So in più che sarà distribuito nei prossimi mesi un remake de Il giustiziere della notte firmato da Eli Roth con Bruce Willis, ma credo che lì il marciume metropolitano sarà più edulcorato rispetto all’originale. Se vuoi ancora vedere la realtà nuda e cruda nei film, ti devi rifugiare nel cinema indipendente di genere, che si è sviluppato grazie a festival come il Sundance e quello di Toronto. Qualche giorno fa mi è capitato di vedere ad esempio Brawl in Cell Block 99, scritto e diretto da S.Craig Zahler, film di chiusura a Venezia 2017 e presente anche nel palinsesto di Toronto. Un noir carcerario fondato sulla denuncia all’istituzione penitenziaria, con battute che sembrano scritte da Bunker e Lansdale, personaggi laidi e amorali, violenza inaudita. Roba rara da custodire gelosamente, in questi tempi così moraleggianti.
È possibile che l’eccentrica modernità di Winner risieda anche nel miscuglio sorprendente tra un certo cinema di genere e i cast di altissimo livello che spesso ha avuto a disposizione?
Questo è sicuro anche perché i divi, e ritorno agli esempi di Brando e Lancaster, erano utilizzati da lui in maniera anticonvenzionale. Potrei aggiungere che anche Robert Mitchum in Marlowe indaga (1978) riprende un personaggio iconico, consegnandoci una versione del detective ideato da Raymond Chandler, più imperniata sulla virilità dolente che sul cinismo e l’amoralità dei precedenti adattamenti filmici.
ABC Michael Winner. Quali sono i suoi titoli imprescindibili e in che modo questi vengono analizzati nel vostro saggio?
Le graduatorie sono troppo soggettive. Sull’atollo in mezzo al Pacifico, mi porterei, in ogni caso, I ribelli di Carnaby Street, Improvvisamente un uomo nella notte, Professione assassino, Scorpio, Sentinel, Il giustiziere della notte, Dirty Weekend, L’avventuriera perversa, La casa in Hell Street e Parting Shots, forse perché troviamo Chris Rea, un musicista che amo molto, in insolite vesti attoriali. Come altre monografie su registi del Foglio Letterario, questo è un volume collettaneo, sviluppato con il solito meccanismo ben oliato dei critici alle prese con l’analisi dei film dell’autore più vicini ai loro gusti e competenze. Colgo l’occasione per ringraziare pubblicamente i miei compagni d’avventura: Beniamino Biondi, Alessandro Baratti, Gianluca Castoldi, Marcello Gagliani Caputo, Mario Gerosa, Mario Molinari, Domenico Monetti, Michele Raga, Silvana Zancolò e, in particolare, i compianti Federico De Zigno e Gabrielle Lucantonio, autrice di un saggio sulle colonne sonore nel cinema del regista inglese, che ha reclutato per i suoi soundtrack musicisti come Jimmy Page, Herbie Hancock e Tony Banks.