L’angolo di Michele Anselmi
In esergo, prima dei titoli di testa, si legge: «Ora i miei incantesimi si sono tutti spenti. La forza che possiedo è solo mia, ed è poca». Lo dice Prospero nel finale di “La Tempesta” di Shakespeare, ma ho come la sensazione che Gabriele Salvatores, classe 1950, parli un po’ di sé, citando quei versi, nel suo nuovo film “Il ritorno di Casanova”. Ha inaugurato il 25 sera il Bif&st di Bari e poi sarà nelle sale da giovedì prossimo, targato 01-Raicinema. D’altro canto, il regista ha appena confessato in un’intervista a “Vanity Fair”: «Ormai mi sento un classico, come una giacchetta di cashmere, comoda ma vecchia. Vedo il futuro un po’ meno infinito. Per fare un film ci vuole un anno e più: quanti ne posso fare ancora?». E già.
Il titolo è preso da un romanzo breve di Arthur Schnitzler pubblicato nel 1918, da noi lo si trova con Adelphi, anche se Salvatores sembra aver preso spunto da quelle dense pagine dedicate a un Casanova 53enne già logorato e intristito, in cerca di un ultimo affondo erotico nel rapporto con una ventenne, per mettere in scena un “doppio” che si chiama Leo Bernardi, fa il regista, anzi è considerato un “maestro” da festival, e sta vivendo, a 63 anni, un cupo momento di stasi creativa e sentimentale.
Per chiarire, senza dire troppo. Bernardi, cioè Toni Servillo, sta finendo stancamente il suo film, tratto appunto da “Il ritorno di Casanova”: c’è da fare in fretta perché la Mostra di Venezia vuole vederlo, il produttore incalza, il montatore è stremato, ma lui, ricco, isterico e lamentoso, si crogiola in una depressione da far venire i nervi a tutti. Prigioniero di una casa ipertecnologica all’insegna della domotica, Bernardi ha conosciuta Silvia, una fiera ragazza contadina, durante le riprese del film, se n’è incapricciato, ma ora che lei è incinta vorrebbe solo scappare. E intanto la casa gli si rivolta contro, tutta la robotica va in tilt (metafora metafora…), non gli resta, sentendosi un po’ nello stato d’animo di Casanova, di spianare il fioretto contro i giornalisti molesti.
Poi, incarnato da Fabrizio Bentivoglio, c’è il celebre libertino veneziano, ora diventato Cavaliere di Seingalt, con il viso spiegazzato e il corpo un po’ flaccido, anch’egli alle prese con una ragazza bella, indomita, pure illuminista, capace di tenergli testa. Marcolina lo scruta con una freddezza che Casanova mai ha rintracciato in uno sguardo femminile: la sfida lo costringe a gettarsi perdutamente in un intrigo rovinoso, forse siglato da un bizzarro duello.
Avrete capito che le due storie, illuminate da Italo Petriccione, s’inseguano e s’intrecciano, l’una rispecchiandosi nell’altra, con una differenza: la realtà odierna è in bianco e nero (a indicare la vita contemporanea), la storia settecentesca è a colori (a indicare la fantasia romanzesca). In mezzo ci sono Salvatores e i suoi sceneggiatori Umberto Contarello e Sara Mosetti, intenti a tessere una trama psicologica nella quale convogliare, diciamo piuttosto arditamente, la meditazione sul cinema d’autore, echi del felliniano “8 ½”, l’angoscia della fine e l’odore della morte, il nichilismo maturo di Schnitzler, l’inganno come unica forma in cui la vita si offre.
A due anni dal piccolo e teatrale “Comedians”, Salvatores orchestra un film costoso/ambizioso nel quale, appunto, su divide – credo di aver capito – tra un Casanova avvilito e un regista spompato: l’uno teme di non avere più la forza di recitare il suo “personaggio”, l’altro vorrebbe solo agguantare uno scampolo di vita prima che sia troppo tardi.
“Che sarà sarà” nella versione di Doris Day sigilla il finale aperto, intriso di speranza, di un film nel quale Salvatores ha pigiato, a mio parere, troppe suggestioni, citazioni, allusioni, in una pioggia di riferimenti colti e situazioni buffe, volti incipriati e nevrosi urbane, il tutto sotto l’egida straripante dello sponsor Armani, il cui marchio grafico appare oltre il dovuto. Echeggiano battute come «Per me la vita è accettabile solo quando giro» e «Un film dura finché c’è qualcuno che vuole vederlo», ma nessuno sembra prendersi davvero sul serio in questo teorema sulla ricerca della «vita vera» sotto i duri colpi della vecchiezza – e forse è la cosa migliore del manufatto.
Come sempre, Salvatores dedica parecchia cura alla scelta delle musiche, puntando stavolta sulla riscoperta di “Piano Man” di Billy Joel, ma ci sono anche l’antica ballata “Scarborough Fair” e qualche aria di Vivaldi. Servillo fa un po’ sempre Servillo, benché abbia ringraziato Salvatores per avergli fatto interpretare una persona e non un personaggio; mentre Bentivoglio, un Casanova che ricorda più il Mastroianni del “Mondo nuovo” di Scola, pure evocato, che il Donald Sutherland felliniano, si esibisce coraggiosamente a culo nudo e col bigolo di fuori, mostrando l’età che ha. Se il versante femminile è ben ripartito tra Sara Serraiocco e Bianca Panconi (Silvia e Marcolina), nel cast confluiscono amici di una vita, da Antonio Catania a Natalino Balasso, da Elio De Capitani a Ferdinando Bruni usato come voce narrante.
Ricordo, per inciso, che nel 1978 Pasquale Festa Campanile girò per la Rai una miniserie in due puntate intitolata proprio “Il ritorno di Casanova”, anch’essa tratta dal romanzo breve di Schnitzler, con Giulio Bosetti nei panni del gran libertino. Qualche anno dopo, nel 1992, sarebbe stato Alain Delon a incarnare il leggendario amatore nel francese “Il ritorno di Casanova” diretto da Édouard Niermans.
Michele Anselmi