L’angolo di Michele Anselmi 

Senzadubbiamente echeggia una battuta che suona come un’involontaria, pure impietosa, auto-recensione. Dice: “Siamo la minchiata giusta al momento giusto”. Un po’ è così. “Cetto c’è, senzadubbiamente” esce al cinema giovedì 21 novembre con Vision Distribution, in centinaia di copie, nella speranza di replicare, almeno in parte, i successi dei primi due capitoli.
Ricorderete forse. Nel 2011 “Qualunquemente” incassò ben16 milioni di euro, due anni dopo “Tutto tutto niente niente” arrivò a 8 e mezzo. Ma sette anni sono tanti, anche per un personaggio gustoso come Cetto La Qualunque, emblema – tra buffa, asprigna e cialtrona – di una certa immoralità politica ascesa a filosofia di vita. Dunque, in una chiave sempre meno realistica, se volete “fiabesca”, gli autori del terzo capitolo si sono dovuti inventare una torsione sovranista, in senso letterale, non ideologico alla maniera della Lega o di Fratelli d’Italia: capita infatti che Cetto diventi proprio una testa coronata.
Del resto, appena pochi giorni fa Emanuele Filiberto ha “sentito il dovere di annunciare il ritorno della Famiglia Reale” in Italia, quindi, certo senza volerlo, “la minchiata” ha effettivamente scelto il momento giusto. Solo che la commedia, diretta sempre da Giulio Manfredonia, scritta da Alberto Albanese e Piero Guerrera, pare davvero arrivare fuori tempo massimo. Cetto viene svuotato di ogni connotazione socio-antropologica, anche politica oltre che dialettale, diventa una specie di cartone animato, non più eversivo nel suo più totale disprezzo del vivere civile, a suo modo pure rassicurante, perché tentato dalla condizione regale.
Succede che Cetto, coi capelli tinti di biondo come Nino Manfredi in “Pane e cioccolata”, viva tranquillamente in Germania con la bella moglie tedesca e il pargoletto mal sopportato, gestendo una redditizia catena di pizzerie. Ma a Marina Di Sopra sta spirando l’amata zia, sicché Cetto, ritrovata la zazzera castana per non sembrare gay, si precipita giù in Calabria a bordo della sua Porsche Cayenne. Dove scopre, all’inizio senza crederci per nulla ma poi prendendoci gusto, di essere l’ultimo erede dei Borbone, grazie a una lontana scappatella della madre ricamatrice con un principe del ramo Buffo di Calabria.
Il resto ve lo potete immaginare. Nell’Italia impaurita e boccalona, in cerca di un leader indiscusso, la nostalgia monarchica si fa strada, al punto di rovesciare il regime repubblicano; e a quel punto, manovrato dal machiavellico nobile Venanzio, l’indecente Cetto sarà incoronato re, col nome di “Cetto Primo Buffo delle due Calabrie”.
Il problema di “Cetto c’è, senzadubbiamente” non sta nell’assunto improbabile, anche sul piano squisitamente istituzionale, benché dopo “Benvenuto Presidente” con Claudio Bisio (più seguito infelice) tutto paia possibile al cinema. La verità è che gli spot sono migliori del film, se non altro più spassosi e politicamente scorretti. Neanche Albanese sembra più credere al suo Cetto, lo incarna svogliatamente, con qualche affondo colorito all’insegna del noto slogan “Più pilu per tutti”, mentre il copione si sfalda scena dopo scena, ridotto a una compilation di stracchi sketch sul contrasto tra la vita da nobile e la natura da mafioso, per la serie: “Mi stanno proponendo di avere un Reato tutto mio”.
Manfredonia cita “Il buono, il brutto, il cattivo” di Leone, sfotticchia le suore di Sorrentino, e naturalmente sigla il tutto con un balletto a ritmo di rap (cantano Albanese e Gué Pequeno). Insommamente, per dirla con Cetto, questo terzo episodio raschia il fondo del barile. Magari, invece, sarà un successo reale.

Michele Anselmi