L’angolo di Michele Anselmi
Un’americanata pop, in senso classico, direi tecnico: ovvero un mix di retorica, ideologia, virilità (addolcita), dilemmi di coscienza, scene spettacolari, bandiere al vento, potenza tecnologica, amicizia antica, paternità acquisita. Questo è “Top Gun Maverick”, il kolossal americano da 152 milioni di dollari che arriva nelle sale italiane il 25 maggio con Eagle Pictures dopo un passaggio promozionale al festival di Cannes; e se il titolo non suona nuovo, ovviamente, è perché trattasi dell’atteso seguito, 36 anni dopo, del primo “Top Gun”.
Rispetto a quel film, scandito dalle note di “Take My Breath Away”, nato da un articolo di giornale mentre Reagan regnava alla Casa Bianca, molte cose sono cambiate: il regista Tony Scott si è ucciso, interpreti come Kelly McGillis, Tom Skerritt, Meg Ryan e Tim Robbins sono parecchio invecchiati, solo Val Kilmer fa una rapida comparsata, e il personaggio di “Ice” non se la passa troppo bene. Tom Cruise, classe 1962, invece sta che è un fiore, infatti torna nei panni di Pete “Maverick” Mitchell, oggi solo Capitano di Vascello nonostante la gloriosa carriera, ma del resto quel soprannome, “Maverick”, in inglese indica l’anticonformista, il cane sciolto, il battitore libero, indipendente.
Girato tra maggio 2018 e febbraio 2019, “Top Gun Maverick” era pronto due anni fa, ma la pandemia ha consigliato di lasciar perdere a causa del notevole investimento economico; adesso i motori possono di nuovo rombare, anche se gli F-14 del 1986 hanno lasciato il campo ai più avanzati F-18 (ma c’è una sorpresa, in proposito, nel finale).
S’intende che il film, diretto da Joseph Kosinski, già sodale di Cruise per “Oblivion”, è di quelli che vanno visti con infantile disposizione d’animo, come un seguito tardivo che prova a rinverdire il “mito” senza esserne un calco; a prenderlo subito storto, i 131 minuti rischiano invece di diventare insopportabili (a me capita con i film tratti dai fumetti della Marvel).
L’antefatto dice molto: il cinquantenne pilota, stabilitosi nel deserto del Mojave dove aggiusta un vecchio caccia della Seconda guerra mondiale, porta a velocità Mach 10 un affilato velivolo sperimentale della Marina, contro ogni ordine e ragionevolezza, nella speranza di salvare il lavoro ai suoi colleghi. Dovrebbe essere punito, invece lo spediscono in una base per “Top Gun”, l’élite dell’aviazione da guerra, per istruire in poche settimane un gruppo di giovani prodigi senza esperienza sul campo, anzi sui cieli. Missione? Praticamente impossibile: bombardare una sotterranea base di arricchimento dell’uranio, in mezzo alle montagne e molto difesa da missili e aerei, allestita da un non meglio definito “Stato canaglia”.
Al solito, come succede nei film bellici hollywoodiani, il film è diviso in due: il lungo addestramento, per far emergere contrasti, passioni, “non detti”, ego spropositati; infine l’operazione rischiosa, nella speranza che tutti e quattro gli F-18 possano tornare sulla portaerei.
“Non pensare, agisci” è il motto di “Maverick”, il quale naturalmente guida ancora la vecchia Kavasaki indossando lo stesso giubbotto di pelle pieno di adesivi e gli stivali da cowboy, fors’anche anche per risultare più alto (all’epoca del primo episodio Kelly McGillis dovette recitare scalza in alcune scene). Solo che il carismatico coach non può immaginare che, nel selezionato gruppo di piloti, c’è Bradley “Rooster” Bradshaw, il cui padre morì proprio in mare tra le braccia di Mitchell l’altra volta. Scatta lo scrupolo morale: inserirlo nel gruppo “suicida” o lasciarlo fuori per salvargli la vita? E qui mi fermo.
Kosinski, i quattro sceneggiatori e Cruise non si fanno mancare nulla: vitalistici riti di passaggio, l’amore riaffiorante per la barista Penny, ovvero Jennifer Connelly, che tanto soffrì quando fu mollata da “Maverick”, sequenze acrobatiche mozzafiato, bandiere piegate e salve di fucili, la stupida rigidità del comandante in capo, nomignoli di battaglia, effetti speciali digitali un tempo impensabili.
Doppiato per l’Italia dal consueto Roberto Chevalier (ma in inglese è meglio), il divo in cartellone pare abbia a lungo tentennato prima di dare l’ok al seguito, in realtà già previsto dai produttori Don Simpson e Jerry Bruckheimer nel 1987, dopo il successo straordinario del primo episodio: quasi 360 milioni di dollari al botteghino mondiale. Alla lunga Cruise ha ceduto, forse pensando che l’iconico “Maverick”, ci sia Trump o Biden alla Casa Bianca poco importa, incarni un archetipo di “americano hero” ancora in grado di mobilitare la nostalgia: di chi vide e di chi non era ancora nato.
Michele Anselmi