L’angolo di Michele Anselmi

“Un caffè lungo, ma non troppo lungo: giusto” sentiamo dire a un certo punto. Gli italiani con il caffè sono come i francesi col formaggio. Incontentabili. Fantasiosi. Pure quando debbono confrontarsi con la morte che incombe, anzi è già arrivata, se non fosse per una deroga miracolosa che offre una seconda chance al protagonista. Ma solo temporanea.
Un anno dopo l’asprigna opera buffa “Io sono Tempesta”, Daniele Luchetti torna con una commedia metafisica “pervasa da un sentimento di malinconica allegrezza” (parole sue), nelle sale da giovedì 14 marzo, producono Beppe Caschetto e Raicinema.
Lo spunto, assai rielaborato per trarne una storia, viene da un fortunato dittico letterario di Francesco Piccolo, “Momenti di trascurabile felicità” e “Momenti di trascurabile infelicità”, i due volumetti Einaudi costruiti su una serie di scherzosi quanto evanescenti quesiti esistenziali misti a sensazioni, sapori, idiosincrasie.
D’intesa con Piccolo, il regista di “La scuola” inventa una cornice fantastica da vecchio film hollywoodiano, un po’ tra “Il cielo può attendere” di Ernst Lubitsch e “L’inafferrabile signor Jordan” di Alexander Hall, per far sfrigolare quei trascurabili dilemmi cari allo scrittore dentro una situazione più densa, drammatica, universale.
“Mentre morivo pensavo che avrei fatto i conti con le cose più importanti della mia vita. E invece…” ragiona il quarantenne Paolo appena investito da un furgone essendo egli passato col rosso. Su in Paradiso, dove il via vai degli estinti viene regolato come in un grande ufficio postale all’italiana, hanno però commesso una svista, non conteggiando le benefiche centrifughe con lo zenzero, sicché al povero ingegnere viene concesso un supplemento di vita in terra, nella sua Palermo: un’ora e 32 minuti, più o meno quanto dura il film senza l’incipit.
Avrete capito: accompagnato da uno zelante angelo custode con tanto di barba, occhiali e panciotto, il risorto “a tempo” potrà misurarsi con le pratiche da chiudere, le cose non dette, i figli e la moglie da riabbracciare prima del congedo. E a quel punto, mentre si affacciano ricordi birichini e sensi di colpa per le corna inflitte, Paolo esorcizza il distacco arrovellandosi su alcune domande prese dai libretti di Piccolo. Del tipo: “La luce del frigorifero si spegna veramente quando lo chiudiamo?”. Oppure: “Ti penso sempre, ma non tutti i giorni, che sembra una frase bella, è davvero bella?”.
Bisogna lasciarsi andare al buffo flusso di coscienza, veicolato dall’io narrante del facondo Paolo, per apprezzare “Momenti di trascurabile felicità”. Luchetti, classe 1960, propone infatti un film spiazzante, anche piuttosto rarefatto nonostante l’uso emotivo di troppe canzoni: se ne apprezza la gentilezza pensosa, il garbo sottopelle, un palpito tra dolente e surreale che l’ambientazione siciliana asseconda.
“Non c’è tempo” sembra dirci il regista, quasi capovolgendo l’assunto veltroniano; anche se alle 19.20, l’ora della “dead line”, magari qualcosa di meraviglioso succederà, perché al cinema tutto è possibile.
Alla fine è il sentimento di tenera disperazione che attraversa il film a prevalere su qualche ripetizione e due o tre episodietti corrivi, a fare di “Momenti di trascurabile felicità” un esperimento curioso, riuscito, fors’anche, per dirla col regista, “un rituale per esorcizzare la paura di andar via”.
Pif è il solito Pif: attraversa il film come un fantasma poco galante, tra bonario e stralunato, pieno di fissazioni, un ometto anaffettivo e maldestro sottoposto a un corso accelerato di umanità; mentre Thony e Renato Carpentieri gli tengono simpaticamente bordone, l’una nei panni della moglie volitiva, l’altro in quelli dell’Impiegato Celeste.

Michele Anselmi