La Mostra di Michele Anselmi per Cinemonitor / 9
Diciamo la verità: ogni volta che alla Mostra del cinema passa un western i maschietti, specie se di età matura, fanno festa. È successo anche oggi con “Dead for a Dollar” che l’ottantenne Walter Hill, destinatario del premio Cartier Glory to the Filmmaker, ha portato qui fuori concorso. Da “I cavalieri dalle lunghe ombre” a “Geronimo”, da “Wild Bill” a “Broken Trail”, il regista ha lungamente frequentato saloon e praterie; qui, a sei anni dal deludente “Nemesi”, torna in sella con un film dedicato a Budd Boetticher, caro ai cinefili per certi “B-western” girati tra gli anni Cinquanta e Sessanta.
Nelle note di regia Hill scrive: “È un racconto schietto e semplice, che prova però a valorizzare molti elementi del westerm tradizionale”. In effetti è così. Non so che cosa sia rimasto della sceneggiatura originale di Matt Harris, ma il film è nobilmente crepuscolare, senza risultare lagnoso o malinconico, talvolta pure ironico, a partire dall’anno scelto per ambientare la storia: il 1897, a un passo dal Novecento.
C’è un temuto cacciatore di taglie, Max Borlund, forse di origine europea, che riceve da un uomo d’affari di Santa Fe l’incarico di ritrovare la giovane moglie Rachel rapita da un soldato disertore, nero, tal Elijah Jones. Aiutato da Alonzo Poe, un altro soldato di colore che bene conosce il sequestratore, Max sconfina nel Messico, sapendo dove scovare i due. Ma presto si accorgerà che la realtà è ben diversa da come l’ha disegnata il marito fingendosi affranto. C’è poi una sottostoria destinata a intrecciarsi con quella principale: la sfida eterna tra il gunslinger Max e il gambler Joe Cribbens, appena uscito dal carcere dopo cinque anni di reclusione.
Hill va sul classico, tra panorami ariosi, duelli a colpi di frusta e sparatorie varie, ma senza perdere di vista il lavoro psicologico sui personaggi (specialmente la donna indocile e ribelle). Viene da pensare qua e là alla trama di un mitico western di Richard Brooks, “I professionisti”, con Burt Lancaster, Jack Palance e la nostra Claudia Cardinale; certo non è scelta a caso la struggente melodia che Rachel esegue al pianoforte: “Beautiful Dreamer” scritta da Stephen Foster nel 1862.
Mi aspettavo qualche applauso in più da parte dei giovani festivalieri alla proiezione stampa, ma è anche vero che molti di essi probabilmente non conoscono il cinema di Hill, incluso “I guerrieri della notte”. Nei ruoli principali ci sono, con l’aria di essersi assai divertiti a cavallo, Christoph Walz, Willem Dafoe e Rachel Brosnahan, rispettivamente il sornione Max, il vendicativo Joe e la temperamentosa Rachel.
* * *
A proposito di “generi”: se l’americano Walter Hill riscopre il western con piglio l’inglese Joanna Hogg complica le cose prendendo spunto da un classico del cinema britannico, la “ghost story”, insomma le storie di fantasmi con casa maledetta, per parlare di qualcosa che la riguarda sul piano personale: il rapporto con la madre. Succede con “The Eternal Daughter”, preso in concorso (Martin Scorsese fa da produttore esecutivo).
Il film gioca con tutti i cliché del ramo: porte cigolanti, infissi che sbattono, nebbia e rumori allarmanti, rintocchi lontani, scale a chiocciola, suoni remoti di flauti. In una gotica mansion che appartenne alla sua famiglia e da anni è stata trasformata in albergo, la sceneggiatrice cinquantenne Julia porta l’anziana madre Rosalind in vista del suo compleanno. Prima sorpresa: entrambe le donne sono incarnate da Tilda Swinton, una volta con capelli rossi e corti, una volta con parruccone bianco e qualche ruga in più.
Nel castello senza clienti ci sono solo una giovane donna alla reception e un anziano nero con funzioni da portiere di notte. Possibile? E intanto, in un’atmosfera tra minacciosa e impalpabile, Julie le prova tutte per rendere piacevole il soggiorno alla mamma e al suo cane Louis. Fin troppo: Rosalind, che in quel palazzo crebbe ai tempi della Seconda guerra mondiale, vorrebbe non essere assillata da tante premure; l’intristita Julie, sposata e senza figli, le risponde: “Sei un mistero per me, da tutta una vita”.
Racchiuso nella misura aurea di 98 minuti, il racconto è insinuante, reticente, procede per piccoli indizi rivolti allo spettatore, mai mostra le due donne insieme nella stessa inquadratura, tranne che nel sottofinale con una candelina di compleanno da spegnere. “Girando il film ho capito che i fantasmi possono intrecciarsi alle nostre emozioni più profonde e intime” spiega la regista. “The Eternal Daughter”, ovvero l’eterna figlia, fatica un po’ a carburare, ma poi prende e tutto, più o meno, torna sul piano delle psicologie e degli eventi.
Michele Anselmi