Sound & Vision

Hauntologia. Con questo termine il filosofo Mark Fisher, parafrasando Derrida, teorizza l’eterno ritorno del passato e la sua opprimente influenza sulla contemporaneità. Spettri deformati e mai esorcizzati continuano a tormentare il presente sotto forma di prodotti culturali che ricalcano prepotentemente canoni appartenenti a futuri (o passati) andati ormai perduti nelle sabbie del tempo. In questo senso potremmo dire che “Ultima Notte a Soho”, l’ultima fatica del regista inglese Edgar Wright, è una pellicola infestata da fantasmi.
Alla protagonista del film, una giovane studentessa di moda appena trasferitasi a Londra dalla campagna, cominciano ad apparire in sogno strane visioni. Alienata dalla competizione con le altre studentesse e dal grigiore del presente, Eloise viene trasportata dalle sovrastrutture del suo mondo onirico nella Londra degli anni Sessanta. Quando la Londra dei Beatles e Soho erano al centro del mondo. Quando la “musica che ascolta mia nonna”, così tacciata da uno studente dell’accademia di moda che frequenta la protagonista, era in vetta alle classifiche. I Kinks, James Ray, ma anche gli Who. Soho è un sogno lucido. Un paradiso luminescente fatto di insegne luminose e pub in cui si esibiscono le aspiranti star bramanti di successo. Ben presto, però, l’apparente utopia degli anni Sessanta si trasforma in un incubo lisergico. Una fotografia acida dagli echi di “Suspiria” e “Neon Demon” sprofonda la pellicola in un limbo dominato da un’atmosfera ansiogena. Realtà e sogno si ibridano. Suoni trasfigurati echeggiano nella mente della protagonista come deliri psicotici. Il caleidoscopico sound design psichedelico, alterando le sorgenti sonore tramite l’uso di delay e riverberi, trasforma l’idillio della “swinging London” in un delirante bad trip che ricorda il Gaspar Noè di “Climax”.

Le sonorità anni Sessanta, accuratamente selezionate dal regista, dominate da organi elettrici e “twangose” chitarre surf, lasciano spazio alla claustrofobica colonna sonora composta da Steven Price. Inquietanti stridori d’archi fanno da contrappunto a malinconiche melodie di pianoforte alla John Carpenter ed ariosi vocalizzi. Basta ascoltare l’inquietante tema di Handsy e No Male Visitors, presagio di un’oscura realtà. Le atmosfere si avvicinano all’immaginario lynchiano di “Twin Peaks” e “Fuoco cammina con me”, quando l’alter ego di Eloise, Sandy, interpretato da Anya Taylor Joy, scivola nella stessa spirale fatta di autolesionismo e prostituzione in cui annega Laura Palmer. Parole sussurrate diventano eterne come musica emessa da un giradischi la cui punta è bloccata per sempre sull’ultimo solco di un vinile. Melodie lisergiche e distese inseguono la protagonista in un gioco di specchi, la musica degli anni Sessanta si deteriora, quasi sbiadendo, ed assume tinte orrorifiche nelle scene più tese, come testimoniato dalla cover spettrale di (There’s) Always Something There to Remind Me. Di nuovo, fantasmi che infestano il presente.

Come si può intuire da quanto detto sopra, il film brilla per il suo comparto sonoro. Non è un fulmine a ciel sereno, considerato l’amore del regista per la musica, tra l’altro ampiamente dimostrato anche nella pellicola precedente, “Baby Driver”, ed in “Scott Pilgrim vs. the World”. Come un appassionato di vinili in costante ricerca di un raro 33 giri, Edgar Wright seleziona personalmente i brani che compongono la colonna sonora e sulle loro trame concepisce il découpage delle scene cardine della pellicola. Il cineasta si serve sapientemente anche del meccanismo dell’auricolarizzazione interna, facendo assumere allo spettatore più volte il punto di vista uditivo della protagonista. Ad esempio, quando Eloise, trovandosi a disagio tra i suoi coetanei che ascoltano musica dance, cerca di evadere dalla realtà indossando delle cuffie, lo spettatore ode delle basse frequenze ovattate che si sovrappongono alla hit storiche che sta ascoltando la protagonista. L’immaginario patinato della Soho degli anni Sessanta è ricostruito partendo proprio dalle musiche, ascoltate sia diegeticamente che non dai personaggi. Non è un caso che la prima sequenza introduca Eloise e la sua personalità proprio attraverso la musica che ascolta nel suo spazio domestico tramite un piccolo giradischi. Una scelta, quella di narrare attraverso i suoni, ampiamente utilizzata anche nel già citato “Baby Driver”. Degna di nota l’ibridazione a tempo tra la statica sonora emessa da un’insegna al neon e la progressione di accordi di un pezzo jazz, entrambe sonorità diegetiche che popolano la soffitta in cui abita la protagonista, vero e proprio non luogo, uno spazio liminale sospeso tra l’oggi ed il 1965. Assonanze con la loggia nera di Lynch, tramite tra il presente ed il passato. “We live inside a Dream”.

Gioele Barsotti