“Non cercate in questo film il mio rapporto con la politica, è un atto d’amore per il cinema”. Nanni Moretti parla così del suo nuovo lungometraggio, “Il sol dell’avvenire”, in sala dal 20 aprile. Il dubbio è se credergli o meno, considerato quanto sia sempre stata politicizzata la sua filmografia. Qui Moretti interpreta un po’ sé stesso, o almeno una sua versione più esasperata, nostalgica e polemica. Il personaggio di Giovanni è anch’egli un regista, che sta girando un film ambientato in una sezione del PCI nel 1956. Questo è l’anno della rivoluzione ungherese contro il regime sovietico, poi brutalmente repressa dalle truppe dell’URSS. Nella sezione, due personaggi incarnano le due posizioni che il partito comunista italiano può prendere in merito alla questione ungherese: Ennio (Silvio Orlando), segretario della sezione, fedele alla linea di Togliatti, che prevede un sostegno all’Unione Sovietica anche quando essa sbaglia; Vera (Barbara Bobulova), più per il sostegno all’Ungheria anche contro la grande patria del comunismo. Al di fuori del set, si innestano i drammi personali di Giovanni. Sua moglie Paola (Margherita Buy), produttrice, vuole separarsi da lui e, come se non bastasse, sta producendo un violento film commerciale che lui detesta. È poi anche preso dal fantasticare sulla realizzazione del lungometraggio dei suoi sogni, che racconta la storia di cinquant’anni di vita di una coppia, con una colonna sonora composta da “tante canzoni italiane”. Insomma, forse un po’ troppa carne al fuoco, troppe linee narrative che non si concludono (ci sono di mezzo anche un circo e la relazione della figlia di Giovanni con un uomo più grande) e che offuscano un po’ il messaggio che si vuole mandare. Dal film traspare una grande nostalgia, sia per ciò che il cinema era e che, in misura maggiore, non è più (Moretti si perde in lunghi discorsi contro la violenza gratuita sullo schermo, la standardizzazione imposta dalle piattaforme, sul commerciale come morte dell’arte), sia per dei valori politici di sinistra che non sono più quelli di un tempo. Sceglie così di raccontare un momento storico in cui i comunisti italiani hanno deviato rispetto ai valori del comunismo delle origini, senza prendere posizione contro l’URSS. Giovanni però cambia idea e, piuttosto che fare un film drammatico, storicamente fedele, racconta un finale diverso. Lancia così un messaggio di speranza, di ritorno alle origini dei valori di sinistra: anche i colori del film nel film sono più luminosi e vividi, spesso c’è del rosso, a rafforzare il concetto. E, considerato come questa pellicola sia così priva di una trama unitaria, senza “turning point” o momenti “what the fuck” alla Netflix, si augura anche il ritorno ad un cinema in cui la libertà artistica del regista sia al di sopra di ogni cosa. Il tutto è accompagnato da “tante canzoni italiane”, da Battiato a De André, fino ad arrivare a Noemi. “Il sol dell’avvenire” è sì un film sul cinema, ma anche un film politico, un atto d’amore per la sinistra italiana, per quello che è stata e che potrebbe ancora essere in futuro.

Martina Genovese