L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per Cinemonitor

«Io, Daniel Blake: un cittadino. Niente di più, niente di meno». Finisce così, quasi con un’epigrafe funeraria, il nuovo film di Ken Loach, appunto “Io, Daniel Blake”, Palma d’oro a Cannes 2016. Non tutti, stavolta, hanno concordato. Per dire, Paolo Mereghetti sul “Corriere della Sera” ne parlò come «uno dei più scontati e meno interessanti visti a Cannes, un comizio politico più che un film, un’intemerata ideologica che trasforma un carpentiere in un agnello sacrificale lasciato solo di fronte dell’insensibilità sociale dello Stato».
Di sicuro il regista britannico, classe 1936, stavolta non intinge nella commedia proletaria il suo implacabile scandaglio sociale, come aveva fatto nel godibile “La parte degli angeli”, e nemmeno si rivolge alla tormentata storia irlandese, come nel più recente “Jimmy’s Hall”. Con “Io, Daniel Blake” Loach non lascia scampo, vede più nero del solito; anche se il suo film non agita solo “un problema” ma racconta dei personaggi, che poi sono persone, cucendo addosso ad esse uno stile intonato all’alto tasso drammatico della vicenda. Quindi: niente musica (se non diegetica), un piglio quasi documentaristico, luce naturale, spiegazioni burocratiche, un’asciuttezza ruvida che evita i rischi del patetismo.
Chi è Daniel Blake? Un muratore vedovo a un passo dai 60 anni, reduce da un infarto. Siamo a Newcastle. Ha sempre lavorato nei cantieri edili, «aggiusto tutto, a parte i computer» si vanta, ma le cose stanno mettendosi male per lui. Non gli riconoscono l’invalidità, e del resto lui stesso vorrebbe riprendere a lavorare. Ma nessuno lo prende, per usufruire del sussidio di disoccupazione deve dimostrare di darsi da fare, e lui ci prova, alla sua maniera. Però nel mondo digitalizzato è un pesce fuor d’acqua, passa per un “dinosauro” incapace di rinnovarsi, si perde tra i moduli da compilare e le segreterie telefoniche, fioccano le sanzioni burocratiche.
Daniel Blake è il volto di un’Inghilterra impoverita e onesta che prova a non smarrire la propria dignità. Ma c’è un limite a tutto. Si vorrebbe – lo spettatore vorrebbe – che l’incontro casuale con una devastata madre single, Katie, appena arrivata da Londra insieme ai suoi due figli e murata viva in una casa gelida e inospitale, portasse un soffio di speranza nell’esistenza del falegname. Succederà?
Dave Johns e Hayley Squires sono i due magnifici interpreti nei rispettivi ruoli di Daniel e Katie, ma tutti, in questo film teso e pessimista, che solo a tratti si apre al calore umano della solidarietà, sembrano tremendamente reali, presi dalla vita vera: insomma, recitano senza darlo mai a vedere (a differenza di quanto capita da noi in Italia).
Poi, certamente, Loach ha girato film migliori, e tuttavia “Io, Daniel Blake” colpisce al cuore, anche nella sua lucida disperazione: per come descrive l’indigenza diffusa, la fredda contabilità, la distrazione sociale, soprattutto la fattiva e paterna generosità di quell’uomo abituato a lavorare con le mani.
Poco importa che il regista sia reduce da una gratuita polemica nei confronti di serie tv all’insegna della nostalgia, come “Downtown Abby”: con quei prodotti, accusa l’irriducibile trozkista Loach, «la Bbc rimbambisce il pubblico». Sarà. Per fortuna il suo cinema è quasi sempre migliore delle sue sortite a effetto.
PS. Carlo Valli è bravo come sempre nel doppiare Dave Johns, ma se riuscite a vedere il film nella versione originale sottotitolata, be’, è meglio.

Michele Anselmi