L’angolo di Michele Anselmi 

Il film comincia con una pistola spianata. “Tra un anno un boss della mafia mi sparerà alla testa, ma io ancora non lo so” scandisce l’io narrante, che poi è la voce di Antonio Bonocore, ovvero il “tuttofare” del titolo. Antonio è un giovane, fattivo e onesto praticante legale deciso a farsi strada senza compromessi; ma nemmeno l’essere arrivato quinto all’esame di Stato lo mette al riparo dalle tragicomiche vicissitudini che la commedia di Valerio Attanasio inanella l’una dietro l’altra, tra amarognolo ritratto sociale e affondi da opera buffa (non a caso echeggiano le musiche di “Figaro”).
Il quarantenne regista esodiente ha scritto “Smetto quando voglio”, storia di precariato e flessibilità, di “cervelli” umiliati costretti a bypassare la legge per tirar su qualche soldo. Antonio non è un chimico disoccupato capace di sintetizzare una nuova droga, ma impara subito che l’italico sistema non predilige il merito, semmai l’arte di arrangiarsi, oggi come un tempo. E quindi eccolo, per 300 euro al mese, farsi un mazzo così nel sontuoso studio di un principe del Foro tiranneggiato dalla moglie, tal Salvatore “Toti” Bellastella, che si divide tra ricche cause penali e disinvolta baronia universitaria. Per quel “mentore” dal ciuffo teatrale, il giovanotto fa di tutto: assistente, portaborse, autista, cuoco personale, all’occorrenza il finto collassato se le cose buttano male al processo. Aspira solo a diventare socio dello studio, e sembra quasi riuscirci: a patto che sposi la procace amante argentina del suo principale, in modo da renderla italiana. Solo una cosa pro-forma, in cambio avrà 10.000 euro al mese e un posto sicuro. Ma qualcosa non torna…
“Il tuttofare”, nelle sale dal 19 aprile con Vision Distribution e Wildside, sembra un episodio allungato dei “Mostri” di Risi, o dei “Nuovi mostri” se preferite, naturalmente riveduto e corretto alla luce dell’odierna “lotta per la sopravvivenza”. Ma Attanasio, uomo di buone letture, preferisce citare tra i modelli ispiratori “Lazarillo da Tormes”, il romanzo anonimo del 1554 che rievoca con spirito picaresco le sconclusionate avventure di un giovane vagabondo nella Spagna di Carlo V, tra povertà diffusa, squilibri sociali e matrimoni fasulli.
Ne esce un film adrenalinico, satirico, survoltato, a tratti davvero divertente, che rilancia continuamente sul piano delle trovate e delle trovatine sceneggiatorie, quasi a non far prendere fiato. Il che, a lungo andare, rende la farsa un po’ meccanica, un congegno per accumulo, dove tutto è possibile: incluso il cambio di sesso di un feroce boss mafioso altrimenti destinato all’ergastolo.
Visti i presupposti, Sergio Castellitto si cuce addosso come un guanto il ruolo di Bellastella, il capriccioso cialtrone di potere, oltre che fine giurista, impenitente puttaniere e collezionista di quadri rubati, al quale il povero Antonio deve sottostare. Castellitto si muove, con l’aria di prenderci parecchio gusto, tra certi personaggi di Sordi, Tognazzi, Gassman, con una punta di De Sica (senior) e Gora. Mentre Guglielmo Poggi, una sorta di nuovo Paolo Briguglia, indossa i panni della vittima designata, ogni volta regolarmente fregata dagli eventi e dalle coincidenze. In attesa di vederla come malinconica Veronica Lario nel dittico “Loro” di Sorrentino, Elena Sofia Ricci disegna la grintosa moglie dell’avvocato che detiene i cordoni della borsa. Cinica e avida, pronta ad allinearsi al mantra che attraversa tutto il film: “Un po’ di nero fa bene all’economia, si chiama nero tollerato”. Solo un po’?

Michele Anselmi