L’angolo di Michele Anselmi

Non stona affatto, per i palpiti di San Valentino, questo curioso film tedesco il cui titolo italiano, ingentilito rispetto all’originale, recita “Un valzer tra gli scaffali”. Il valzer è in questione è “Sul Bel Danubio Blu” di Johann Strauss, che echeggia sui titoli di testa, subito a suggerire, per contrasto, il divario tra la suadente melodia molto sfruttata al cinema e il contesto non altrettanto sorridente, tendente al giallognolo triste, nel quale si svolge la vicenda: un enorme ipermercato all’ingrosso tedesco in quella che fu un tempo la Ddr filosovietica. Thomas Stuber, il regista, è nato a Lipsia nel 1981, quindi aveva solo nove anni quando avvenne la tribolata riunificazione tra le due Germanie; e tuttavia sembra assai interessato al tema, che attraversa la storia d’amore come un filo rosso, a tratti quasi come una maledizione capace di permeare facce, esistenze, abitudini, alloggi, paesaggi. Nel desolato microcosmo umano rappresentato da quell’ipermercato cresciuto nel nulla si intrecciano i destini amorosi di due anime ferite: Christian è un giovanotto appena preso in prova come “scaffalista” notturno, il suo corpo è ricoperto di tatuaggi, a dirci di una precedente vita turbolenta; Marion dei reparto Dolciumi, bionda e aggraziata, è una moglie infelice, maltrattata dal marito, forse in cerca di fuga. I due si annusano, si spiano, ogni tanto lei, più audace, cerca un gesto di tenerezza, salvo ritrarsi subito dopo per rinchiudersi in un malmostoso silenzio che destabilizza ancora di più il timido novellino, intento a capire come pilotare “il muletto” per lo spostamento delle merci. Per fortuna il vecchio Bruno, che ai tempi della Ddr guidava enormi “bestioni” per le strade e ora vive quel lavoro tra gli scaffali come una maledizione, lo prende a ben volere, un po’ per sfuggire alla desolazione, un po’ per aiutarlo a integrarsi. “Un valzer tra gli scaffali”, nelle sale da 14 febbraio con Satine Film, è tutto qui, nell’osservazione quotidiana di Christian, Marion, Bruno e di alcuni altri impiegati, ciascuno dei quali fissato con qualcosa, come murati vivi in quel contesto nel quale si vedono più bancali che clienti, e anche il Natale assume una coloritura mestamente alcolica. Dice il regista, che ha preso spunto per scrivere il copione da un racconto dello scrittore tedesco Clemens Meyer: “La storia è pervasa da un’immensa, profonda tragicità, eppure ha bisogno solo di pochi dettagli per prendere vita”. In effetti bisogna lasciarsi andare all’andamento lento del film, soffermandosi su quello stile meditabondo che vive di dettagli: il fruscio della vicina autostrada sulla rampa di carico, la sigaretta segreta al bagno durante la pausa, lo strano rumore simile a quello del mare che scaturisce, a farci caso, dall’elevatore in moto… Il realismo è poetico, da ballata sui puri di cuori, ma senza l’ironia spiazzante e dolce di certe storie marginali alla Kaurismäki; tutto è iscritto, insomma, nei visi degli attori, nei loro sguardi ora spenti ora desideranti, in una sorta di altalena tra rassegnazione e redenzione. Franz Rogowski e Sandra Hüller, l’uno visto in “Happy end” di Michael Haneke, l’altra in “Vi presento Toni Erdmann” di Maren Ade, conducono il loro immaginario valzer d’amore intonandosi al clima generale del film, che dura due ore, non accarezza le pulsioni romantiche e impone allo spettatore una certa pazienza. Però vale la pena.

Michele Anselmi