L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per “il Secolo XIX”
A chi parla addirittura di “editto bulgaro”, a proposito del divieto imposto ai giurati di rilasciare interviste sulle loro riunioni, il direttore della Mostra, Alberto Barbera, risponde secco, pure un po’ scocciato. Così: «Non è una novità, succede in tutti i festival, e penso sia una cosa giusta. Per rispetto nei confronti dei giurati. Il verdetto è collettivo, solo quello conta. Tutto il resto – discussioni vivaci, dinamiche interne o eventuali litigi – non dovrebbe finire sui giornali. Quindi Carlo Verdone ha fatto bene a parlare solo in conferenza stampa».
Come ogni domenica mattina, a fine festival, mentre gli operai smontano la “cittadella”, Barbera e il presidente Paolo Baratta incontrano i cronisti residui sulla terrazza del vecchio Palazzo. Ci sono i treni o gli aerei da riprendere, il rito è un po’ stanco, ma qualche informazione utile viene fuori. Per dire: si aggira attorno a 1 milione e 300 mila euro l’incasso tirato su dai biglietti, su un costo totale della Mostra di 12 milioni; sono saliti invece a 128 mila, rispetto ai 126 mila del 2013, quelli che Baratta, spiritosamente parlando di «nuovo coefficiente», definisce «i sederi seduti», cioè coloro che hanno assistito a vario titolo, accreditati e giornalisti inclusi, alle proiezioni.
Ma certo tutti vorrebbero parlare del palmarès. Condivisibile solo in parte, anche perché lo svedese “Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza” di Roy Andersson, per quanto amabile e strambo, non è parso il Leone d’oro perfetto. Meglio sarebbe stato retrocederlo a Leone d’argento e promuovere al massimo premio “Le notti bianche di un postino” di Andrei Konchalovskij. In effetti risulta che almeno tre giurati si siano posti il problema, ma alla fine gli altri sei, per primo il presidente Alexandre Desplat, hanno optato per Andersson. Del resto, con l’eccezione di quello per la migliore sceneggiatura andato all’iraniana sessantenne Rakhshan Banietemad per il toccante “Racconti”, nessun riconoscimento è stato attribuito all’unanimità, solo a maggioranza; il che significa che in giuria s’è discusso, eccome, secondo schieramenti variabili e repentini ripensamenti.
Vale per il sopravvalutato e piatto “Sivas” del turco Kaan Müjdeci, al quale è andato a sorpresa il Premio speciale della giuria. Non avrebbe convinto alcuni giurati, e ti credo, ma rompere su quel titolo avrebbe voluto dire rimettere in discussione l’equilibrio raggiunto, forse a scapito delle due Coppe Volpi, una per Alba Rohrwacher e una per Adam Driver, andate all’italiano “Hungry Hearts” di Saverio Costanzo.
Un cronista chiede a Barbera: il cinema italiano meritava di più? «Non voglio rispondere a questa domanda, tanto meno commentare il verdetto della giuria, farei torto al presidente Desplat» replica il direttore. Che aggiunge: «Lo so, farebbe comodo che vincesse il film hollywoodiano, pieno di star, popolare. Ma non siamo qui per premiare “Birdman”, che pure trovo bellissimo. Magari è più utile che vinca Andersson. In ogni caso, i verdetti delle giurie si accettano e non si discutono. O li discutono i critici. Sennò mi metto a fare anche il presidente di giuria e do i premi col bilancino, tipo manuali Cencelli, così siamo tutti contenti».
Barbera ha ragione. Dispiace comunque, però, che “Anime nere” di Munzi e “Il giovane favoloso” di Martone, specialmente il secondo, non siano stati nemmeno presi in considerazione per il palmarès, anzi subito esclusi dal confronto. Come “Pasolini” di Ferrara: e qui, almeno, non si può parlare di ingiustizia. Adesso non resta che sperare che Leone d’oro e d’argento siano acquistati e distribuiti da qualcuno per l’Italia. Ma non sarà facile: con l’aria che tira, il cinema d’autore estremo, anche quando vince ai festival, è diventato veleno da botteghino. Purtroppo
Michele Anselmi