L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per il Secolo “XIX”

Era il luglio 2002, a Medusa arrivò una sceneggiatura firmata Ettore Scola, Furio Scarpelli e Silvia Scola. Il titolo: “Un drago a forma di nuvola”. Sottotitolo: “La petite”. Una storia pensata per Gérard Depardieu, che due anni prima aveva partecipato a “Concorrenza sleale”, sui frutti malefici delle Leggi Razziali. Il progetto s’arenò quasi subito. Confessò all’epoca il regista in un’intervista: «Si era d’accordo su tutto, la sceneggiatura era fatta, pure bella. Ma avrebbe prodotto Berlusconi, e io, finché è al potere, film con lui non ne faccio… Per lavorare bene bisogna avere una certa armonia col committente, sentirsi parte di una famiglia che crea una cosa». Medusa, che pure aveva cofinanziato “Concorrenza sleale”, non replicò ufficialmente alla dura presa di posizione, preferendo rimarcare la presenza, in ditta, di cineasti certamente “non berlusconiani”, come Tornatore, Bertolucci, Ozpetek, Benigni, Salvatores, più tardi Virzì.
Purtroppo quel film non si fece mai. L’anno dopo Scola ne girò uno a basso costo, intitolato “Gente di Roma”, nato come un taccuino d’appunti sulla città che l’aveva accolto, lui di Trevico, Irpinia. E solo nel 2013, col documentario-omaggio su Fellini “Che strano chiamarsi Federico”, il regista tornò sul set, anche un po’ controvoglia. “Un drago a forma di nuvola” restò a volteggiare per aria, finché non diventò, nel 2014, un graphic novel a fumetti, su tavole di Ivo Milazzo e testi dello stesso Scola, edito da Bao Publishing (17 euro).
Tuttavia resta la curiosità di sapere come il regista di “Ballando ballando”, così amata in Francia a scorrere le recenti prime pagine sulla sua morte di “Libération”, “Le Monde” o “l’Humanité”, avrebbe girato quella storia scritta insieme alla figlia e al collaboratore di una vita. Scarpelli appunto: l’avido lettore di Cechov, Dickens e Trifonov, lo sceneggiatore che cesellava i copioni come fossero romanzi. Leggere per credere l’incipit di “Un drago a forma di nuvola”. Scena 1, esterno giorno: «In una stradina dell’Ile Saint Louis, a Parigi, c’è una vecchia libreria, poco frequentata, perché quelli che ci passano davanti o non sono grandi consumatori di libri oppure preferiscono fare i loro acquisti in librerie più modernamente attrezzate».
“L’encrier et la plume” il nome del negozio, che la sceneggiatura originale descrive così: «Qui dentro cataste di libri usati, antichi, qualcuno anche raro e prezioso, invadono dal pavimento al soffitto tutti gli spazi disponibili, lasciando libero solo qualche stretto corridoio per il passaggio. Gli scaffali, le vetrine, le sedie e anche il piano della scrivania di noce sono ingombrati dai libri, così che l’unico elemento di arredamento rimasto fedele alla sua funziona primaria resta la grande poltrona “chesterton” di cuoio imbottito. Un disordine compatto, ma caldo e accogliente, tale da far sentire l’eventuale visitatore a suo agio. Il libraio è un uomo massiccio, anche lui un po’ arruffato nei capelli e nei vestiti; pur grande e grosso, ha una vitalità dirompente e gli occhi vispi di un bambino. Con un’abilità insospettata in un omone della sua stazza raggiunge gli scaffali più alti, inerpicandosi sulla scala a libretto come fosse il comandante Achab sulle cime del “Pequod”».
Solo l’inizio, ma è già un mondo. Come sapete, Scola ha volentieri ambientato i suoi film in luoghi chiusi, circoscritti, una balera, una terrazza, una carrozza, una casa borghese, usandoli come palcoscenico per raccontare il tempo che passa, gli amori che sfioriscono, la vecchiaia che incombe, i sogni e i rimpianti. Soprattutto la Storia che rumoreggia fuori e modifica, entrando, il privato delle persone. Non faceva eccezione “Un drago a forma di nuvola”, costruito attorno alla fisicità imponente e arruffata di Gérard Depardieu, nei panni di Pierre, il quasi sessantenne libraio vedovo e coltissimo che accudisce da una vita la figlia paralizzata Albertine. L’attore pareva perfetto per incarnare l’incontro tardivo, inatteso, forse impossibile, tra un signore murato vivo nei ritmi rassicuranti della pensione e una bella ragazza, la scapigliata e rozza aspirate giornalista tv Yolande, che irrompe nella sua routine, scompaginandola. Il tutto visto da Albertine, che “parla” in corsivo sulla pagina scritta, con voce fuori campo, attraverso una sorta di Io interiore. In fondo è lei, con la sua immobilità totale (eccezion fatta per gli occhi), a condizionare la vita dei personaggi. Si legge in sottofinale: «Se Albertine ha bisogno del padre per vivere, Pierre ha bisogno della figlia per sopravvivere. Essere utili non basta, se non si è indispensabili».
All’epoca si parlò di Nastassja Kinski e Audrey Tatou per i due ruoli femminili, poi vennero fatti altri nomi di attrici, fermo restando Depardieu. Difficile dire se un film come “Un drago a forma di nuvola” avrebbe successo oggi. Forse no. Ma resta la ricchezza dei riferimenti letterari, che non suonano come erudite strizzatine d’occhio: da “Jacques il fatalista” al “Sipario sollevato” di Mirabeau, e poi “La Recherche” di Proust, “Gargantua et Pantragruel” di Rabelais, i “Pensieri” di Blaise Pascal, Alfred de Musset, Pierre de Ronsard… Un modo per evocare il contrasto tra i “mondi” dei due personaggi: il raffinato libraio cresciuto nel culto di quei volumi, la scalpitante ragazza cresciuta nel sogno del successo televisivo. Neanche 90 pagine, che si leggono quasi come un romanzo breve, tra dialoghi serrati, descrizioni argute e affondi epigrammatici. Come questo: «Forse non ci sono più rivoluzioni perché non si sa come vestirsi». Già.

Michele Anselmi