La Mostra di Michele Anselmi | 3
Doveva chiamarsi “Limbo” il nuovo film del messicano Alejandro G. Iñárritu, accolto oggi in concorso alla Mostra, e forse sarebbe stato meglio. “BARDO, cronaca fittizia di una manciata di verità” suona invece più astruso, pure difficile da ricordare (c’è di mezzo un concetto buddista). Alla proiezione mattutina per la stampa c’era parecchi vuoti in platea, nonostante l’aura da evento imperdibile; magari è stata anche la lunghezza, quasi tre ore, a spaventare alcuni accreditati, vai a saperlo.
Schematizzando un po’, certo facendo la tara, si può dire che “BARDO, cronaca fittizia di una manciata di verità” sia per Iñárritu ciò che fu “8 ½” per Fellini. Un film personale, pensato quasi in una prospettiva psicoanalitica, denso e fluttuante, pure smodato, fumigante di ricordi, sogni e incubi, ma deciso anche a fare i conti con le feroci contraddizioni della storia messicana. “La memoria non è veritiera, possiede soltanto convinzioni derivate dalle emozioni” teorizza il regista, e non saprei dire se sia proprio così. Ma certo il film rovista nel passato e presente del protagonista, parrebbe alter-ego del regista: un giornalista/documentarista, tal Silverio Gama. L’uomo vive da vent’anni a Los Angeles con la famiglia, ha appena ricevuto un prestigioso premio internazionale, ma il Messico e ancora nella sua testa e nel suo cuore: un viaggio nella sua città natale metterà in moto un tumultuoso flussa di coscienza.
Da subito il tono non è realistico, semmai onirico, anche perché Silverio vive davvero in una sorta di limbo, presente e assente allo stesso tempo. Il 59enne Iñárritu ama le descrizioni forti, frutto anche di visioni tra macabro e surreali: qui un neonato appena uscito dalla pancia che vuole rientrare nel ventre materno, perché solo lì si sente al sicuro (segue reintroduzione del corpicino nella partoriente e taglio di un esteso cordone ombelicale). Quel piccolo avrebbe dovuto chiamarsi Mateo, la sua esistenza durò solo un giorno, ma Silverio non è mai riuscito a elaborare il lutto, pur avendo avuto dalla moglie, dopo, due splendidi figli ora grandicelli.
Come un sonnambulo che si sdoppia, osservando sé stesso all’opera, Silverio fai conti con rovelli personali e verità più o meno ufficiali, e sullo schermo si materializzano, a volte con toni buffi, a volte con visioni di morte, la guerra ottocentesca tra Usa e Messico, la tragedia dei clandestini, la fetida stagione dei “desaparecidos” e della repressione militare, perfino lo sterminio dei indios ad opera degli spagnoli di Hernán Cortés.
Il tutto, spesso, in una chiave ipertrofica e metacinematografica, tra intuizioni potenti sul piano visivi e situazioni un po’ ripetute. Del resto il regista messicano di film come “21 grammi” e “Revenant” ama stupire, scioccare, anche mettere a disagio lo spettatore.
C’è una scena curiosa nella quale il giornalista, testa da adulto su corpo da bambino, incontra il padre morto da anni; il vecchio ricorda al figlio un criterio al quale attenersi: “Assaggia il successo, risciacqua la bocca e poi sputalo”. Non so se il cineasta parli anche di sé, ormai di casa a Hollywood, ma certo suona come una confessione apprezzabile.
Daniel Giménez Cacho, capelli lunghi e barbetta da intellettuale, dà corpo a Silverio, facendone un uomo tormentato e irrisolto, pure sensuale, con sulle spalle un baule di chimere e un incedere da morto che cammina.
Il film, prodotto da Netflix, uscirà nei cinema ad autunno inoltrato e poco dopo, il 16 dicembre, sulla piattaforma.
* * *
Decisamente più classico nella struttura drammaturgica, ma non meno elaborato sul piano visivo, il secondo titolo in gara della giornata: “Tár” dello statunitense Todd Field. Anche qui pezzatura lunga: 158 minuti. Probabile che il film non si sarebbe fatto senza il sì di Cate Blanchett, davvero prodigiosa in questa nuova prova: per sottigliezza, fisico del ruolo, ricchezza espressiva.
Lydia Tár è un carismatico direttore d’orchestra, un talento assoluto della bacchetta. Bionda, magra, elegante nei suoi completi pantalone preferibilmente neri, la musicista fu benedetta da Bernstein e adesso gestisce un enorme potere. Vive a Berlino, dove dirige la più celebre orchestra al mondo, insieme all’ex compagna, la violinista Sharon, e alla di lei figlia Petra (le fa “da padre” dice). Tár è una donna tosta e determinata, sostiene che il talento delle donne emerge, sempre che ci sia, detesta il “politicamente corretto” e dice pane al pane. Poi, certo: come la nostra Beatrice Venezi, vuole essere chiamata “direttore”, non “direttrice”. Gli incapaci che la venerano sono definiti sprezzantemente “robot”, ma pure lei custodisce qualche scheletro nell’armadio: licenziamenti, storielle con orchestrali e allieve, favoritismi, bugie sulla sua nascita, eccetera. Il problema è semplice: e se tutto venisse fuori? Sarebbe la fine della dorata carriera.
Il film, scritto da Field, è frutto di una dettagliata ricerca sul campo (riferimenti, omaggi, gergo), ma io non sono del ramo e quindi potrei sbagliarmi. Però è difficilmente discutibile il fulgore estetico della messa in scena, tra morbidi piani sequenza e inquadrature fisse senza campi e controcampi sui visi degli attori; anche il rigore col quale Todd usa la musica, perlopiù in chiave diegetica, cioè proveniente dall’interno della scena.
Blanchett è magnifica per come maneggia la parabola della sua Lydia (se la cava bene anche al pianoforte), ma non sono da meno gli altri interpreti; da Noémi Merlant a Nina Hoss, da Mark Strong alla vera violoncellista Sophie Kauer (e si vede).
PS. Non si capisce perché, ma sono state sottotitolati i dialoghi in inglese, quando i personaggi parlano in tedesco, e non sono poche battute, nulla.
Michele Anselmi