L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per Cinemonitor

Va bene, diamolo per vero. Asia Argento ama ripetere nelle interviste che «tutto è autobiografico e tutto non lo è» in “Incompresa”, il suo terzo film da regista, dopo “Ingannevole è il cuore più di ogni altra cosa” del 2005 e “Scarlet Diva” del 2000, accolto a Cannes nella sezione Un certain regard. L’attrice trentanovenne, figlia di Dario Argento e Daria Nicolodi, aggiunge, a proposito della protagonista, nella finzione una bambina battezzata Aria, cioè un po’ Asia e un po’ Daria, di aver «cercato nella mia infanzia per costruire la sua». Infatti tutto si svolge nel 1984, quando lei aveva nove anni, anche se “Incompresa” si propone «come un romanzo di formazione al contrario, in cui sono soprattutto gli adulti che necessitano di essere formati, o forse de-formati, destrutturati». Il tutto, s’intende, citando Bergman, il Truffaut di “i 400 colpi”, il Comencini di “Incompreso”, con un particolare riferimento a papa Giovanni XXIII, che invitava i genitori a dare una carezza ai propri bambini. Quelle che nel film quasi mai riceve la ragazzina.

Si può capire, dopo aver visto “Incompresa”, nelle sale il 5 giugno con Good Films, perché papà Dario non abbia tanto gradito e forse neppure mamma Daria. La protagonista, incarnata con bel piglio dalla piccola Giulia Salerno, spiega fuori campo nell’ultima scena: «Se vi ho raccontato tutto questo non è per fare la vittima, magari ora sarete più gentili». Sottinteso: verso di me, Asia Argento. Donna e artista piuttosto incline agli eccessi, anche verbali, specie sul versante degli amori e dei comportamenti.
Del resto, anche se di fantasiosa autobiografia si tratta, tra digressioni fiabesche, minimalismo realista, album dei ricordi formato Polaroid e «soggettività imperante e radicale», sin dall’inizio Charlotte Gainsbourg appare truccata, vestita e pettinata esattamente come Daria Nicolodi, con allusione esplicita al nonno compositore Alfredo Casella, pure citato nella troppo affollata colonna sonora, e ai due giorni in gattabuia per possesso di erba. Mentre Gabriel Garko, che incarna il padre, non è un tormentato regista di film horror bensì un biondastro divetto di successo che ha girato robacce come “Senso ‘45” di Tinto Brass ma sogna di cimentarsi col grande cinema d’autore (infatti qui spiritosamente coproduce); però come l’Argento di un tempo è umorale, esposto a furori improvvisi, terribilmente superstizioso: specchi rotti e gatti neri lo fanno impazzire. Per chiudere il cerchio, Aria ha due sorelle, anzi sorellastre, proprio come accadde nella realtà.

Detto questo, essendo “Incompresa” un film, non serve acchiappare propri tutte le strizzatine d’occhio disseminate, e neanche condividere quanto teorizza l’autrice, cioè «che lo spettatore ideale è il bambino sepolto in ciascuno di noi», naturalmente l’opposto del fanciullino pascoliano di cui ha orrore. Tuttavia il film è scucito, divagante, troppo lungo nei suoi 107 minuti, a tratti involontariamente ridicolo nella recitazione, scritto così così insieme a Barbara Alberti. Anche se è bella, pure profonda, la frase che la regista, in scena solo dieci secondi per una scenata in reggiseno rosso, fa dire all’infelice/rapace ragazzina sempre in bilico tra le case dei due sventati genitori separati, spesso sprofondando allegramente nella notte romana: «Un minimo gesto d’amore lo faccio durare come un lecca lecca». Cioè tanto, il più possibile.
PS. Da notare che sui titoli di coda il direttore della fotografia Nicola Pecorini, pure bravo, appare sotto la dizione “cinematografia”. Ancora un passo e avrebbero scritto “cinematographer”, alla maniera di Vittorio Storaro.

Michele Anselmi