Sound & Vision

“Lost in Translation – L’amore tradotto” è una pellicola del 2003 scritta, diretta e prodotta da Sofia Coppola. Il film narra del soggiorno a Tokyo di Charlotte (Scarlett Johansson) e Bob (Bill Murray), lei malinconica per un matrimonio che non sembra decollare, lui alienato dallo sgretolarsi del rapporto con la moglie e perseguitato dal fantasma della propria carriera da attore.
Il progressivo isolamento dei due protagonisti viene accentuato e tradotto in musica da una colonna sonora intimista, introspettiva e profondamente nostalgica. La regista affida i brani originali della pellicola a Kevin Shields, frontman della band shoegaze irlandese My Bloody Valentine. La sua chitarra, affogata in echi di feedback, avvolge l’ascoltatore in una catarsi sonora di rumore bianco. Reminiscenze del muro di suono dell’album capolavoro della band di Dublino, “Loveless”. Non è un caso che la dolce brezza di “Sometimes” culli lo spettatore spaesato di fronte alla grandiosità ballardiana della città giapponese.
Il vero e proprio marchio di fabbrica dello shoegaze, genere musicale popolare alle soglie degli anni Novanta, è l’inintelligibilità delle parole dei testi, sepolti sotto molteplici stratificazioni sonore. Le calde melodie di Bilinda Butcher sono sospiri eterei di Polaroid sbiadite, indecifrabili misteri per lo spettatore. Proprio come il giapponese per i due protagonisti, distanti dalla lingua e dai costumi di un paese in cui non sono nient’altro che stranieri.
Le sonorità ovattate della Fender Jazzmaster di Shields si perdono e si confondono, mimetizzandosi con i suoni ambientali di una Tokyio cosmopolita e cacofonica. Geniale la scelta di lasciare contaminare la colonna sonora con i rumori diegetici originati dalla metropoli. I suoni provenienti da una sala giochi arricchiscono le trame di un sintetizzatore. I clacson atonali delle auto impreziosiscono le melodie rendendole umane, troppo umane. L’effetto di questa scelta è un tiepido arazzo sonoro che ricorda i tramonti sulla città orientale. I due protagonisti si sentono disorientati come una moltitudine in viaggio.
La colonna sonora della pellicola non si limita, però, agli interventi sognanti del chitarrista della band alfiere dello shoegaze. Il film si apre con un’inquadratura statica, musicata dalle trame sonore riverberate e lontane di “Girls” dei Death in Vegas. Una Tokyo futuristica ed aliena suscita stupore allo stesso tempo sia nello spettatore che in Bob, mentre delle dolci voci femminili segnano l’arrivo del protagonista nell’hotel in cui alloggerà. Un vero e proprio non-luogo, oasi occidentale in un deserto di simboli e ideogrammi indecifrabili. La disperazione dell’attore si riflette nella stanca rivisitazione in chiave jazz di Simon e Garfunkel che ascolta nel lounge bar dell’albergo. Quando Charlotte trova il coraggio di oltrepassare le Colonne d’Ercole del proprio alloggio per recarsi in metropolitana, i rumori ambientali si ibridano assieme ai beat trip-hop di “On the Subway”, dando vita ad una neolingua sonora. Un momento di malinconica introspezione attanaglia la protagonista mentre “Tommib” dell’artista IDM Squarepusher accompagna il sole che, da un’ampia vetrata, tramonta sullo skyline di Tokyo. Echi di incomunicabilità reminiscenti de “La notte” di Michelangelo Antonioni. Un sognante pezzo techno dei Chemical Brothers viene ascoltato diegeticamente da Bob e Charlotte all’interno di una discoteca alla moda. La sua elettronica particellare esplode in un crescendo di colori estatici mentre i protagonisti si stanno divertendo per la prima volta dall’inizio della pellicola. “Alone in Kyoto” degli Air, duo francese di musica elettronica, con le sue texture delicate ed impressioniste, commenta il viaggio che Charlotte compie per arrivare ad un tempietto buddista, disperatamente in cerca della serenità ormai perduta.
Il climax emotivo, e sonoro, della pellicola viene raggiunto nelle ultime sequenze. I due protagonisti si sono leniti a vicenda le ferite, lasciandosi andare ad un amore platonico, destinato a durare solo pochi giorni. Assonanze con lo struggente finale di “Hiroshima Mon Amour” di Alain Resnais. Le note di “Just Like Honey” dei pionieri dello shoegaze Jesus and Mary Chain accompagnano l’ultimo tentativo di Bob e Charlotte di gettarsi in un disperato abbraccio. Le chitarre affogate nella distorsione ed il testo intimista esplodono mentre i due si cercano tra la folla stanca di un giorno qualunque. Come il protagonista di “In The Mood For Love”, Bob sussurra nell’orecchio della giovane amata delle confessioni indecifrabili, potenti, candide messaggere del suo sentimento. Anche queste parole, purtroppo, andranno perse durante la traduzione.

Gioele Barsotti