L’angolo di Michele Anselmi 

Capisco tutto, ma citare Massimo Recalcati e la cosiddetta “evaporazione del padre”, come ho letto da qualche parte in rete, mi pare davvero troppo. Benché “Gomorra – La serie”, chieda di essere presa terribilmente sul serio, e il suo notevole successo lo confermi. Infatti “L’Immortale”, co-scritto, diretto e interpretato da Marco D’Amore, non esisterebbe senza la serie, nel senso che bisogna conoscere i personaggi per apprezzare questa filiazione cinematografica che fa un po’ da raccordo, pur proponendosi “autonoma”, tra la quarta e la quinta stagione. L’operazione, patrocinata da Cattleya con Vision Distribution, probabilmente funzionerà al botteghino, non a caso “L’Immortale” esce a tappeto, in quasi 500 copie, giovedì 5 dicembre, per farsi largo con qualche giorno d’anticipo tra le commedie natalizie.
I produttori hanno fatto firmare ai critici un foglio con l’impegno a non rivelare il finale. Mi parrebbe il minimo non guastare la sorpresa, quando c’è. E qui, al termine di quasi due ore di film, accade qualcosa che di sicuro piacerà agli estimatori della saga criminale.
Al cinema, una decina di anni fa, uscì uno straordinario “polar” francese di Richard Berry, con Jean Reno protagonista, che si chiamava proprio “L’immortale”, con la “i” minuscola. Ciro Di Marzio, detto Cirù, invece ha la nomea di “Immortale” con la maiuscola. Nell’incipit, ripreso credo dal finale della terza serie, lo vediamo abbracciato a Genny Savastano che gli spara al cuore e poi lo fa calare nell’acqua, apparentemente morto. Non è così: il carismatico e dolente camorrista viene ripescato, curato, nascosto e infine da Don Aniello inviato a Riga, in Lettonia, per fargli cambiare aria e curare certi affari di droga con un potente boss russo.
Livida e squallida, nonostante i due grattacieli tutti di vetro, Riga diventa la nuova “patria” di Ciro; il quale, smagrito e sempre laconico, misterioso, chiuso nel suo giubbotto di pelle, comincia a fare quel che deve, secondo il suo celebre mantra: “Nella vita esiste sempre la possibilità di scegliere, il difficile è tornare indietro” (significa poco ma suona bene).
E intanto, mentre le cose si complicano assai a Riga, assistiamo a continui tuffi nel lontano passato di Ciro: scampato da neonato al terremoto del 1980, cresciuto orfano, finito nella “paranza” di un piccolo malvivente, Bruno, che lo tratta come un figlio pure sfruttandolo nel traffico delle sigarette di contrabbando. Lo stesso Bruno, ormai invecchiato e dedito a commerci da “magliari”, che Ciro ritrova a Riga.
Bombardato dalla musica elettronica di Mokadelic e fotografato su tinte ore rugginose ora brillanti da Guido Michelotti, il film incede solenne e allusivo, infittendo la storia di personaggi e rese dei conti, in modo che “Cirù” possa emergere, tra un flashback e l’altro, con la statura, diciamo, di un personaggio shakespeariano (parola di D’Amore): feroce e tenero, cinico e generoso, “un uomo solo che non desidera più niente”, come sentiamo dire.
I nomi dei cinque sceneggiatori, che sono Leonardo Fasoli, Maddalena Ravagli, Francesco Ghiaccio, Giulia Forgione e lo stesso D’Amore, appaiono nel manifesto in caratteri più vistosi di quelli riservati agli interpreti, il che significa qualcosa, a occhio; e cioè che la scrittura, come succede per le serie poliziesche americane, fa aggio su tutto il resto, dentro un progetto che gli stessi sceneggiatori definiscono “un vero e proprio esperimento cross-mediale come forse non se ne sono mai realizzati”. Vabbè.
D’Amore, ormai saldamente piantato nel ruolo di “Cirù”, va sul sicuro sul piano della recitazione, in una chiave che sta tra il bello e il dannato; come regista fatica un po’ a tenere insieme i due piani temporali, ma è anche vero che i tuffi nel passato, un po’ “alla Tornatore”, con qualcosa di “Oliver Twist” e un omaggio ai vecchi polizieschi con Mario Merola, segnano la novità rispetto alla scansione televisiva.

Michele Anselmi