L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per Cinemonitor

Chiamandosi “Inferno”, non poteva che uscire in 666 copie, ovvero il numero prediletto dal Diavolo. Dopo l’anteprima mondiale fiorentina del 6 ottobre, il terzo film di Ron Howard ispirato ai romanzi di Dan Brown esce giovedì nelle sale italiane, e alla Warner-Sony si aspettano meraviglie. Magari non replicherà i trionfi dei precedenti “Il Codice da Vinci” e “Angeli e Demoni”, ma di sicuro farà tabula rasa attorno a sé (basta passeggiare per strada o prendere un autobus per accorgersi di quanto già se ne parli).
Tuttavia non è proprio una riuscita. Detto senza malizia, la recensione del film è perfettamente sintetizzata da una frase che echeggia in sottofinale, pronunciata da una specie di super-killer. «Non è il mio miglior lavoro, ma per gli italiani può andare» sospira, dopo aver ammazzato un tizio nella Basilica di San Marco a Venezia. Appunto. Si vede, insomma, che Ron Howard non s’è impegnato più di tanto nell’aggiungere un nuovo capitolo alla serie incentrata sulle avventure del professore americano in simbologia Robert Langdon, sempre incarnato da Tom Hanks (stavolta con normale taglio di capelli). Di sicuro s’è più divertito a girare il documentario musicale “The Beatles. Eight Days a Week”, e subito prima il titanico “Heart of Sea” ispirato alla leggenda di Moby Dick.
Con “Inferno” va sul sicuro: best-sellerone di Dan Brown, copione di David Koepp, due ore esatte di film, Firenze come ambientazione principale più scorribande a Venezia e Istanbul (ricostruita a Budapest), riferimenti pittorici a Botticelli e Vasari, naturalmente Dante come spunto esotico, letterario e profetico per una serie di demoniache visioni all’insegna dei “gironi” infernali.
«L’umanità è la malattia, l’Inferno la cura, forse il dolore può servirci» teorizza tal Bertrand Zobrist, uno scienziato “transumanista” deciso a risolvere il problema del sovraffollamento terrestre con una “modesta proposta” che farebbe impallidire quella paradossale di Jonathan Swift. L’allucinato guru, prima di uccidersi saltando da un campanile fiorentino per non farsi catturare, ha in animo di diffondere un micidiale virus capace di sterminare una buona metà del genere umano, senza andare tanto per il sottile. Che cosa c’entra Langdon? Chiaro: toccherà a lui, in buona misura, il compito di sventare l’insano progetto, procedendo per dotte elucubrazioni legate al dantesco “Inferno”. Solo che il prof. ha perso la memoria, così almeno sembra: steso su un letto d’ospedale, proprio a Firenze, non ricorda perché è finito lì, perché ha una ferita d’arma da fuoco alla tempia, perché custodisce nella giacca insanguinata una “biocapsula” misteriosa, perché fiamme, satanassi, brandelli di carne e orrori vari continuano a perseguitarlo. Per fortuna l’attraente dottoressa Sienna Brooks, che conosce a memoria i suoi libri, lo salva da una sicaria in divisa da carabiniere decisa a farlo fuori.
La sorpresona arriva dopo un’ottantina di minuti, e ci fermiamo qui, perché “Inferno”, tra inseguimenti nei luoghi storici di Firenze, uno spottone ai treni Italo e depistaggi continui alle spalle dello sbalordito Langdon, si trasforma in un mix di James Bond e Jason Bourne, con tanto di caccia all’uomo e suspense sul filo dei secondi, ma senza possederne la tensione.
Tom Hanks, doppiato sempre bene da Roberto Chevalier, fa quel che può per ispessire il personaggio colpito da amnesia ma lesto a cucire i dettagli; il resto del cast è funzionale al thriller per nulla sovrannaturale: Felicity Jones è la complice, Ben Foster il pazzoide, Omar Sy (il nero di “Quasi amici”) il segugio dell’Organizzazione mondiale della Sanità, Irrfan Khan il temibile “Rettore”. La più brava in campo è la danese Sidse Babett Kundsen, che incarna una scienziata impavida da sempre attratta da Langdon e viceversa. I loro duetti sull’amore sfiorato sono la cosa migliore del film, a patto di non ricordare quelli, ben altrimenti profondi, con Fabrice Luchini in “La Corte” di Christian Vincent.

Michele Anselmi