Il finale di Inside Llewyn Davis rammenta per molti aspetti una particolare chiusura di sipario. Il dramma è Amadeus di Peter Shaffer. La scena si affaccia sulla benedizione ai mediocri da parte di un Salieri folle ed esausto. Stanco d’essere sempre secondo, logorato d’essere omuncolo privo di genio perché il genio, lui, era un altro: Wolfgang Amadeus Mozart. Anche se la similitudine non è palesata a tutti gli effetti, è ovvio che tra Bob Dylan e Llewyn Davis (ispirato al cantante folk Dave Van Ronk, pioniere degli anni Sessanta, tra i mentori di Dylan) sia intercorso lo stesso tipo di liaison.
La vita di un giovane cantante folk nel panorama musicale del Greenwich Village nei primi anni Sessanta. Senzatetto, Davis trascorre le sue notti sui divani di conoscenti e amici con tutti gli svantaggi che ne conseguono. Senza un centesimo (i suoi dischi raccolti in scatole di cartone accumulano polvere alta così), senza un contratto decente, Davis corre per la città alla ricerca di un gatto. Si sa, i fratelli Coen amano i perdenti e Llewyn Davis è forse il migliore della loro scuderia. Ispirato nell’arte, men che zero nella vita.
Dalla presentazione a Cannes, la critica si è dimostrata entusiasta della nuova pellicola “made in Coen”: “Un film perfetto”, “Una gemma in più per i fratelli Coen”. Quello che ho visto dalla terza fila, durante il TFF, è sì un film perfetto. Perfetto, davvero. La fotografia è magistrale da spezzare il fiato (un plauso a Bruno Delbonnel), le prospettive sono ad hoc, come sempre, nicchie ad incastonare personaggi e situazioni. La musica è perfetta. Cosa non va? Il cuore e, se manca quello, la barca perde acqua e affonda. Tutti abusano della parola cuore. Cuore di qua, cuore di là. Ma bisogna fare attenzione a riciclare termini tanto importanti.
Inside Llewyn Davis è mero esercizio, intellettuale e compiaciuto, messo su per un film transeunte. Un lavoro diligente, certo, cui tuttavia manca verve, umorismo, un protagonista le cui rughe d’espressione trasmettano emozioni (forse sopravvalutata la prestazione di Oscar Isaac). Puntuali, a riempire i momenti di transizione, i soliti personaggi bislacchi incontrati per strada, la figura di donna perennemente incazzata col mondo. E poi? Nulla. Ho faticato a riportare il film alla memoria. Certe scene erano passate nel dimenticatoio. Non paragoniamo dunque Inside Llewyn Davis a Fratello dove sei? o a A Serious Man. In entrambi i casi c’era vita, sempre, anche negli istanti di amara disperazione. Questi sono i fratelli Coen in carne e sangue. La loro ultima creazione è soltanto un’opera di passaggio. Non basta buona musica per fare un buon film.
Chiara Roggino