Intervento di Gianni Canova
 
Una sola osservazione su quello che è stato detto dalla persona che ha parlato prima di me perché c’è un equivoco. Mi sembra che siamo ancora qui a credere che un film, affinché possa esser ritenuto culturalmente e politicamente importante, dev’esser un film che affronta temi esplicitamente politici, sociali o culturali. Non è così, si può fare un film contro il potere facendo un film su un monolito come ha fatto Kubrick, oppure su una farfalla o su un asino come faceva Bresson. Un film, almeno per come la vedo io, può esserlo se mette in discussione i luoghi comuni e gli stereotipi, la pigrizia nel modo di pensare e di vedere. Soltanto se non ci costringe a vedere come gia sapevamo fare prima di vedere. E questa era la premessa. Io sono molto d’accordo sul fatto di evitare di sembrare qui un simposio di archeologi e di occuparci di un paesaggio di rovine che appartengono al passato. Il cinema è cambiato, è cambiato il modo di fruirlo e di consumarlo. Riporto una brevissima esperienza personale: ieri pomeriggio nella mi Università (IULM) ho terminato le 5 ore di lezione dedicate all’avventura di Antonioni e sono ancora commosso perché 400 studenti di 20 anni che si alzano commossi e applaudono, avendo visto un capolavoro, è una cosa che mi commuove. E mi dicono: “ma perché questi film non ce li fa vedere più nessuno?”. Questi 400 studenti non vedono la televisione neanche con la pistola puntata alle tempie, non leggono i giornali, vivono connessi – non solo divisi fra “attivi” e “passivi” – consumano film come mai prima d’ora. Vent’anni fa non era così e però poi diventano “spett-autori”, stanno dentro la rete, rielaborano e ricreano delineando uno scenario straordinariamente nuovo e innovativo che va colto come opportunità e non come rischi. Dobbiamo vedere la creatività che passa dentro questi nuovi flussi e modi comportamentali. I cinque milioni di € che ha incassato in Italia “Into the wild” sono dovuti al fatto, anche, che per quanto riguarda per esempio la formazione..
 Il problema fondamentale è che si riscoprano i linguaggi per trasmettere una passione che si chiama Cinema e che tutti condividiamo. Le scuole e le università negli ultimi 10-15 anni, un po’ della parte che competeva a loro l’hanno fatta. Quindici anni fa in Italia c’erano max 10 cattedre di cinema, oggi ce ne sono centinaia! C’è un pubblico che cresce, che si appassiona e va al cinema soprattutto per scoprire la produzione italiana facendo cadere il vecchio pregiudizio. Mi dispiace dire che le televisioni non lo fanno, soprattutto di rimettere in circolo il problema del linguaggio. Non è solo cosa e come raccontiamo, non fai un film contro il potere se fai un film su Bush o su Berlusconi. Fai un film contro il potere se metti in discussioni gli stereotipi, la pigrizia dei nostri modi di pensare, se metti in moto i nostri sogni-desiderei-fantasmi-.immaginazione, sogni che prima non c’erano! E allora mi dispiace dirlo ma sono convinto che qualcuno avesse portato la sceneggiatura di “Into the wild” a qualche produttore italiano nessuno lo avrebbe prodotto. A Milano nell’ultimo anno sono stati prodotti 18 lungometraggi di finzione da giovani esordienti con un low-budget di 20.000 € e di questi vi assicuro che con 100.000 € sarebbero stati film “da sala” a livello di Into the wild ma da noi il conformismo del potere non li produce perché si ha paura di dar fastidio. E ancora, in Francia il cinema francese ha lottato all’ultimo sangue contro Sarkozy che una volta eletto nessuno si è chiesto chi sarebbe diventato il nuovo direttore del “Festival di Cannes” o de “ La cinemateque” o delle istituzioni francesi….lì il potere e la politica hanno un rapporto diverso da quello distorto e perverse che c’è nel nostro paese. Ultima questione e finisco. Ringrazio Eugenio Scalfari per quello articolo importante su “Repubblica” che richiama l’attenzione sui linguaggi però secondo me i media dovrebbero avere il coraggio di fare auto-critica perché i giornali italiani non ne parlano. Quasi tutti i giornali italiani, ahimè anche quello fondato da Scalfari, sono ancora fermi ad una “visione staliniana” per cui Giuliano Ferrara usa il cinema per esempio “Juno”, perché gli sembra possa esser speso come un film contro l’aborto. I giornali, spesso quelli del centro sinistra, usano il film per etichettare ma on ci si pone il problema ci come ne parla. Io trovo ignobile che un film come “Caos Calmo”, senza dare giudizi estetici, sia stato liquidato dal 95% dei media italiani per le chiappe nude di Nanni Moretti o per come le sue dita toccavano il seno di Elisabetta Ferrari. Se continuiamo così disprezziamo il pubblico dando l’impressione di intraprendere un atteggiamento razzista nei suoi confronti, di un pubblico che è evoluto e che non li legge più i giornali perché vorrebbe altro. Dal fatto per esempio che la spettatorialità, oggi, è la condizione fondamentale della nostra esistenza. Nella vita poi facciamo i registi, i professori, ma ciò che ci accomuna è il fatto che siamo tutti spettatori. Consumiamo 600.000 immagini artificiali al giorno e il problema politico è questo: che cosa facciamo quando guardiamo un’immagine? Perché il livello con cui i nostri giornali affrontano il cinema è sempre piattamente contenutistico? Non ci si pone il problema di fondo che è la produzione del senso, come mi lavora dentro un film o un corto? Che immaginario mette in moto? Quali bisogni sociali e individuali soddisfa? Questo è il problema su cui i media italiani tacciono e non a caso siamo il paese più analfabeta dell’Occidente rispetto al linguaggio degli audiovisivi e su siamo anche il paese più esposto all’influenza della televisione. La differenza tra il cinema e la televisione è appunto che, il cinema ti obbliga a pensare quello che vedi la televisione ti consente di vedere sempre e solo ciò che già pensi.