La Mostra di Michele Anselmi / 8

Confesso: quando c’è di mezzo l’irlandese Brendan Gleeson sono poco attendibile. Mi piace tutto, o quasi, ciò che fa. Lo trovo un attore titanico, duttile e carismatico, e se per anni, specie nei film hollywoodiani, gli hanno fatto recitare personaggi di contorno, da qualche tempo ha saputo imporsi come intenso protagonista: penso a “Un poliziotto da happy hour” (quel titolo italiano grida vendetta), a “Calvario”, per non dire di “Bruges”. Proprio quest’ultimo lo vide accanto a Colin Farrell, sotto la guida del regista Martin McDonagh; il terzetto s’è ricomposto ora per “The Banshees of Inisherin”, in concorso alla Mostra.

McDonagh è il regista di “Tre manifesti a Ebbing”, giustamente amato da pubblico e critica; per questo nuovo film è tornato dalle sue parti, in Irlanda. Siamo nell’immaginaria Inisherin, remota isola al largo della costa occidentale del verde Paese, marzo 1923. Pochi abitanti, niente energia elettrica, una chiesa piena di fedele alla domenica, un pub al centro della vita locale. Qui si vedono ogni giorno per una pinta di birra e qualche chiacchiera gli amici Pádraic e Colm, ovvero Farrell e Gleeson. Ma di colpo il secondo decide di chiudere col primo. “Avete litigato?” chiedono tutti a Pádraic, lui risponde: “Credo di no, non mi sembra”; però Colm è irremovibile: “Non mi hai fatto nulla, ma non mi vai più a genio, sei troppo noioso”.

Da bravo drammaturgo, McDonagh utilizza lo spunto paradossale per parlare d’altro: di una certa insensatezza isolana, del tedio che fa appassire i rapporti, della guerra civile che arriva da lontano attraverso colpi di fucile e di cannone, di spiriti e “streghe”, del dilemma tra gentilezza e talento, pure dell’emancipazione femminile.

Nei cinema dal 3 febbraio 2023 targato Disney, col titolo “Gli spiriti dell’isola”, il film è buffo e cruento allo stesso tempo, scandito dai tentativi dello sbalordito Pádraic di far pace con Colm, il quale, estenuato, arriva a minacciare di tagliarsi un dito della mano sinistra (è un provetto violinista folk) ogni volta che l’ex amico proverà a ancora parlargli. Credergli?

Vacche, asine, cani, paesaggi struggenti e case fredde, un poliziotto manesco, un prete che dice parolacce, una sorella colta che vuole andare in Irlanda, “lo scemo del paese” in cerca di qualcuno con cui parlare. Bisogna entrare in quel clima bizzarro per apprezzare il film, di sicuro Gleeson si conferma l’attore eccelso che è, ben servito da Farrell, Kerry Condon e Barry Keoghan.

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Da vedere anche “Love Life”, l’unico film asiatico che gareggia per il Leone d’oro di questa Mostra molto, troppo, “occidentale”. Lo firma il 42enne giapponese Koji Fukada, partendo da una sua sceneggiatura. Un tocco lieve, a tratti vagamente surreale, è intessuto alla vicenda fortemente drammatica. La graziosa Taeko e il taciturno Jiro, sposati da poco, perdono di vista per un attimo il figlio seienne Keita nel giorno del suo compleanno, il quale muore sbattendo la testa e finendo affogato nella vasca da bagno non svuotata. Solo che il piccolo, campione di un gioco digitale chiamato “Othello”, era figlio dell’ex compagno di Taeko: un coreano, pure spiantato e sordomuto, da anni irreperibile. L’uomo, a sorpresa, si fa vivo nel giorno dei funerali per schiaffeggiare la donna devastata dallo strazio.

Il film, divagante e profondo allo stesso tempo, racconta non solo l’elaborazione di un lutto, ma anche i morsi della solitudine e del pregiudizio, le complicate strategie dell’amore, quasi pedinando i personaggi: così composti negli atteggiamenti, siamo pur sempre in Giappone, ma attraversati da pulsioni e paure, sensi di colpa e atti di redenzione. Mi auguro che arrivi un premio. Uscirà con Teodora Film, meritoriamente (valorosamente).

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Il primo vero scivolone arriva invece con “Don’t Worry Darling”, seconda regia dell’attrice Olivia Wilde, sistemato fuori concorso. Parecchio gonfiato dai mass-media, il film è di quelli che un po’ bluffano, e ci sta, ma anche barano, per la serie: quanto c’è di reale in ciò che stiamo vedendo? La partenza è bruciante, con il fumigante blues “Night Time Is the Right Time” cantata da Ray Charles, a introdurci in una ricca festa in stile tardi anni Cinquanta. Tutti bevono e schiamazzano, vestiti lussuosamente, nella liliale comunità ai margini del deserto. Case eleganti, interni color pastello, auto rombanti, donne con la permanente che passano le giornate a ciacolare in attesa che tornino i mariti, tutti alle prese con un misterioso Progetto Victory legato allo sviluppo, non meglio definito, di materiali avanzati”. Viene da pensare a qualche laboratorio da “guerra fredda”, ma sarà così? Di sicuro c’è sotto qualcosa, l’armonioso paradiso tale non è, come percepisce la bionda casalinga Alice quando l’infelice vicina Margaret sale su un tetto per tagliarsi la gola.

Potrei citare infiniti titoli di film a proposito della sceneggiatura di Katie Silberman, col rischia di rivelare troppo. Olivia Wilde sostiene che “Don’t Worry Darling” è una “lettera d’amore a quel cinema che supera i confini della nostra immaginazione”. Vabbè. Tra mitiche canzoni d’epoca, colori accesi e balletti geometrici alla Ester Williams (in bianco e nero), il film allude e suggerisce, improvvisamente aprendo una parentesi ambientata ai tempi nostri. Si parla, avrete capito, del ruolo delle donne nella società americana. Florence Pugh è convincente nel ruolo della ribelle Alice, suo marito è incarnato dalla popstar Harry Styles, moltot atteso e applaudito dalle ragazzine qui al Lido.

Michele Anselmi