L’angolo di Michele Anselmi
Diciamo che in inglese il titolo, “The Power of the Dog”, suona meglio che in italiano. E forse vale la pena di ricordare che “Il potere del cane” in questione è un romanzo di Thomas Savage, edito in Italia da Neri Pozza, quindi da non confondere con l’omonimo libro di Don Winslow, edito invece da Einaudi. Premiato alla recente Mostra di Venenzia con il Leone d’argento per la migliore regia, il film di Jane Campion esce oggi mercoledì 17 novembre, con Lucky Red, in alcune sale selezionate, tra le quali il rinato cinema Troisi a Roma, e dal 1° dicembre sarà più facilmente rintracciabile su Netflix, che pure ha prodotto.
A dodici anni dal suo “Bright Star”, Campion ricostruisce il Montana del 1925 tra le colline aspre della sua Nuova Zelanda, e un po’ si vede. Con “Il potere del cane” siamo tecnicamente in zona western, tra mandrie e cowboy, spolverini e stivali, anche se il romanzo da cui il film prende le mosse in fondo parla d’altro: di omosessualità latente o repressa, della gelosia fraterna, delle forme fantasiose della vendetta, della desolazione anche nell’agio. Infatti è l’unico western che conosca in cui non si spari nemmeno un colpo di pistola o di fucile, anzi neanche si vedono Colt e Winchester. Semmai viene da pensare a film come “La valle dell’Eden” o “I segreti di Brokeback Mountain”, specie per l’indagine psicologica sulla virilità e le ambiguità che la circondano.
I fratelli Burbank, Phil e George, gestiscono un ricco ranch nel cuore del Montana (nessun paragone con quello della serie tv “Yellowstone”). L’uno è ruvido, bullo e omofobo, poco incline a lavarsi, insomma una specie di “macho” primordiale, benché abbia studiato e suoni bene il banjo; George, il maggiore, è gentile, elegante e sensibile, soprattutto in cerca di una moglie per lenire la solitudine campagnola. La troverà nella vedova Rose, una locandiera ancora bella, madre di un adolescente, Peter, che appare “strano”, un po’ femmineo, dedito a modellare fiori di carta per abbellire i tavoli sulle tavole dei vaccari.
Un colpo, per Phil, quel matrimonio del fratello, perché sconvolge la rassicurante routine e mette a nudo qualcosa di oscuro, di non detto. La sua risposta sarà una diuturna guerra casalinga nei confronti dei due “intrusi”, ma con esiti inattesi, s’intende tragici.
“The Power of The Dog”, uso qui la dizione originale, è un titolo a chiave: è ripreso da un apologo dell’anglicano “Book of Common Prayer” e insieme si riferisce a una formazione rocciosa nella quale chi sa osservare può riconoscere l’immagine di un cane proteso alla caccia. Ma chi è il vero cane in questa storia fosca e disperata, fatta di silenzi e imbarazzi, alcolismo e umiliazioni, antrace e corde intrecciate?
Girato tra paesaggi maestosi, a luce naturale, quasi a farci “sentire” la vita vera dei cowboy, il film, lungo 134 minuti, ha un andamento lento e un po’ tedioso, certo minaccioso, come se ogni gesto di rabbia o disperazione ne preparasse un altro, in risposta. L’inglese Benedict Cumberbatch deve essersi
divertito
assai nel riprodurre lo slang americano del vaccaro e indossare gli abiti lerci dell’enigmatico Phil, in una trasformazione anche fisica che potrebbe portarlo verso l’Oscar; mentre Kirsten Dunst, Jesse Plemons e Kodi Smit-McPhee incarnano l’angariata vedova, il fratello laconico e l’adolescente che forse non la racconta tutta.
Michele Anselmi