L’angolo di Michele Anselmi
“Quanto dura questo strazio?”. È sempre rischioso mettere una battuta del genere in un film; magari, per eterogenesi dei fini, potrebbe suggerire una possibile recensione. Invece Jasmine Trinca, 41 anni, ottima e sensibile attrice, non ha avuto dubbi nell’inserire quell’invettiva nel suo esordio alla regia, “Marcel!”, fuori concorso a Cannes e dal 1° giugno nelle sale con Vision Distribution. La domandina insofferente risuona in una specie di festa campestre, siamo negli anni Ottanta parrebbe, e la grida una mamma un po’ scombinata e anaffettiva, si crede un mix di Marcel Marceau e Pina Bausch, rivolgendosi ai sosia tristi di Al Bano e Romina mentre intonano “Ci sarà” (la canzone torna anche sui titoli di coda, però).
Spira aria di autobiografia in questo film un po’ cervellotico, assai ambizioso nello stile a partire dai titoli dei 10 capitoletti che lo compongono; infatti Trinca spiega nelle interviste che “Marcel!” parla di sua madre, del “tentativo di fare pace con lei e di ringraziarla attraverso una rielaborazione favolistica del vissuto, cercando di comprenderlo, esorcizzarlo, renderlo universale”. Di sicuro “non una madre devota alla figliolanza, semmai una madre sghemba, abitata dall’arte” (sempre per citare l’attrice-regista), che sullo schermo indossa il corpo, il rossetto, i gesti, le calze vermiglie, la cuffia da pilota sopra il parruccone di Alba Rohrwacher.
Artista di strada tendenza mimo, Madre, il personaggio è chiamato così, sembra persa in una febbricitante missione creativa esercitata nella diffidenza dei più in un caseggiato popolare della Garbatella. La figlia piccola, incarnata da Maayane Conti, suona il sassofono, ostenta un discreto broncio ma prova ad assecondare la “stranezza” materna, anche se è stata cresciuta dai nonni paterni che abitano nel medesimo edificio, votati al culto del figlio scomparso, appunto il padre della ragazzina.
Marcel è l’amato cagnolino che l’artista sciroccata fa “recitare” nei suoi spettacoli, ma un giorno la bestiola scompare, nessuno sa dove sia finita, sicché la figlia sassofonista torna un po’ in gioco, al punto che Madre, ancorché devastata da quel lutto, se la porterà dietro in un viaggio, tra fisico e simbolico, alla volta di un piccolo festival teatrale d’avanguardia.
Non saprei proprio dire se ci sia qualcosa di “chapliniano”, come leggo, in questo film sicuramente molto meditato, alquanto infranciosato, nel quale la neoregista deve aver travasato ricordi, sofferenze, episodi di vita vissuta, discorsi astrusi e atteggiamenti ribellistici. Ma bisogna crederle se oggi descrive come “una superoina” la mamma, benché, a vedere quanto accade sullo schermo, sia pure tra divagazioni surreali e grottesche, deve averle complicato non poco la fanciullezza.
Ci sono dialoghi del tipo: “Da dove venite?” “Dal posto delle risposte”; le scenografie hanno un tono da favola, i costumi anche; i ricchi sono superficiali e antipatici, murati vivi nei loro privilegi; mentre le due viandanti incarnano, si direbbe, una purezza inconciliabile con mode, volgarità e gusti diffusi.
Confesso di aver faticato ad arrivare alla fine, ma forse mi sfugge lo spirito filiale, chissà se “femminista”, che anima il film, a suo modo sperimentale, diciamo. Trinca non vi recita, limitandosi ad apparire dalle gambe in giù, sparando una frase sgradevole a due ragazzini. Il contesto corale è animato dalla presenza, in chiave di cammei, di numerosi volti noti, probabilmente sedotti dal progetto e decisi a dare una mano: da Giovanna Ralli a Valeria Golino, da Paola Cortellesi a Valentina Cervi, da Umberto Orsini a Giuseppe Cederna.
Michele Anselmi