L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per “Cinemonitor”

Comunista, anzi fieramente trozkista, classe 1936, l’inglese Ken Loach sfodera un eloquio gentile, ma le sue parole pesano come macigni. Volato nella capitale per promuovere “Jimmy’s Hall – Una storia d’amore e libertà”, nelle sale dal 18 dicembre con la Bim, il regista della classe operaia infilza un po’ tutti col suo schidione ideologico, beccandosi pure l’applauso dei giornalisti. State a sentire. Tony Blair, la sua bestia nera da sempre. «Un criminale, la guerra in Iraq era illegale, andrebbe arrestato e poi portato davanti al Tribunale dell’Aja per essere processato. Invece lui prende premi dappertutto e incassa soldi a palate per consulenze e conferenze». Quanto a Matteo Renzi… «Mi dicono che ha ricevuto Blair a Palazzo Chigi e, di fronte a una pizza, gli ha chiesto pure consigli su come governare. Ridicolo. Inutile. Abbiamo bisogno di leadership vera, non di leader carismatici. Voi italiani ne sapete qualcosa». Ed è solo l’inizio dei fuochi d’artificio.
Intendiamoci, Loach è un grande cineasta, ha girato 25 film, alcuni dei quali portentosi, da “Family Life” a “Riff Raff”, da “Piovono pietre” al recente “La parte degli angeli”, in effetti è una sorta di cantore della classe operaia, dei diseredati, degli ultimi, degli “under dog” per dirla all’inglese. Ma è anche vero che la qualità speciale delle sue storie dipende in buona misura dalla collaborazione con lo sceneggiatore Paul Laverty, più duttile e problematico di lui, capace di sciogliere una certa rigidità marxista nel racconto proletario di sapore universale. La borghesia, con le sue frustrazioni e le sue smanie, non interessa granché a Loach. Ancor meno la nobiltà britannica, estenuata e frivola. Dice: «Mi risulta più facile fare film sulle persone che mi piacciono, che fanno sorridere, che inventano le battute più divertenti. Con la “working class” mi trovo meglio, più a mio agio».
Sarà per questo che l’altra sera a “Di martedì”, il talk show pilotato da Giovanni Floris su La 7, non s’è divertito granché. Spiega candidamente, esibendo puro humour britannico, di non capito quasi nulla della puntata. «Mi sono ritrovato di fronte a un banchiere romano e a un giornalista di destra, due tipi strani, anche un po’ orribili». Erano Luigi Abete e Alessandro Sallusti. Chissà se hanno percepito. Meglio è andata a Susanna Camusso, almeno sul piano umano, ma senza esagerare: «Mi ha fatto piacere conoscerla. Ma continuo a pensare che i leader sindacali, un po’ dappertutto, siano i “poliziotti” della classe operaia. La frenano, la sorvegliano. Servono alla classe dirigente, economica e politica, per governare più tranquillamente».
Difficile seguirlo su questo terreno, anche perché Camusso ripete spesso che Renzi, contro il quale ha organizzato uno sciopero generale, le ricorda addirittura la signora Thatcher. «Avrebbe dovuto dire Blair, il paragone calza meglio» suggerisce Loach. Il quale, sempre ben disposto verso Cobas e centri sociali, anche ieri scatenati a Roma contro il Job Act, aggiunge: «In qualsiasi periferia, anche qui a Roma, ci sono persone arrabbiate che si organizzano per rispondere agli attacchi dei padroni, per difendere i diritti di lavoratori, disoccupati, senzatetto, disabili. La cosiddetta libertà del mercato è una prigione, giusto resistere». Insomma, avete capito come la pensa il regista che nel 2012 fece arrabbiare anche Gianni Amelio, all’epoca direttore del Torino Film Festival, rifiutandosi di ritirare un premio per solidarietà nei confronti di alcuni lavoratori precari (ma forse era stato informato male).
Poi vedi “Jimmy’s Hall” e capisci che il Loach regista è di sicuro più interessante del Loach attivista. Ispirato a una storia vera, avvenuta nell’Irlanda cattolica del 1932, il film rievoca l’odissea di Jimmy Gralton, incarnato sullo schermo da Barry Ward. Socialista e figlio di contadini, il giovanotto dieci anni prima, nel fuoco della guerra civile, aveva avuto la buona idea di aprire nella contea di Leitrim una sala da ballo nella quale riunire la piccola comunità rurale: per stare insieme, ascoltare musica e poesia, tirare di boxe, imparare a danzare. Troppo per le gerarchie cattoliche, preoccupate di perdere il primato sui temi dell’educazione e per nulla disposte a sopportare «quel covo di comunisti», molti dei quali, però, rispettosi fedeli. Gralton era dovuto scappare negli Stati Uniti per non finire male. Un decennio dopo torna al paesello per aiutare l’anziana madre; e naturalmente, nel rincontrare l’amata Oonagh, pensa bene di riaprire la Pearse-Connolly Hall. Tutto fanno festa. Ma lui di nuovo finirà nel mirino di preti, fascisti, filo-inglesi e proprietari terrieri. Con esiti imprevedibili. Anche amarissimi.
Dice Loach: «Perché raccontare questa storia? Perché contraddice l’idea di una sinistra cupa e deprimente, nemica del divertimento e della gioia di vivere. E poi perché dimostra che la religione organizzata tende a coalizzarsi con il potere economico e politico. Lo ha fatto allora contro Jimmy Gralton e continua a farlo. Chiesa e Stato diventano agenti di oppressione».
Il regista vede Gralton come un antesignano di Julian Assange ed Edward Snowden, e chissà se il paragone regge. Di sicuro Loach, a proposito di Vaticano e dintorni, non nutre troppe speranze nei confronti di papa Francesco. «So poco di lui, forse pronuncia parole nuove sulla povertà, ma è anche vero che ha avuto una lunga carriera nella Chiesa. Dovremmo farci delle domande. Per esempio: che rapporti ha intrattenuto con la dittatura argentina?». E ti pareva…

Michele Anselmi