L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per “il Secolo XIX”

«La verità? Dalla vita ho avuto molto più di quanto mi sarei mai aspettato. Fama, soldi, opportunità, salute. Sono un uomo fortunato, neanche troppo intelligente. Ma ho una moglie bella e sensibile, con lei provo a migliorare ogni giorno… nella speranza di diventare un po’ più intelligente». Kevin Costner, 60 anni a gennaio 2015, è quello che gli americani chiamano “decent man”: un uomo buono, presentabile, onesto. Così almeno pare, a vederlo e sentirlo parlare. Venerdì 24 ottobre è volato nella capitale, da Londra, per promuovere al Festival di Roma il suo nuovo film, “Black and White”, da lui interpretato e prodotto ma non diretto.
Una storia vera di razzismo strisciante, tra lutto e pregiudizio, che nessuno Studio a Hollywood voleva finanziare. Così i soldi li ha messi lui, d’accordo con la seconda moglie Christine Baumgartner, sicuro che “Black and White” possedesse un notevole valore commerciale, capace di raggiungere il grande pubblico. «Mi ha toccato subito. Mike Binder mi invia un sacco di sceneggiature, ma questa era davvero speciale. Tiene tutti i personaggi sul filo del rasoio. Alla fine ha fatto anche la regia. E io sono contento di aver contribuito. Perché è un film dal quale si esce migliori» spiega l’attore..
Jeans chiari, stivali da cowboy, gilet su t-shirt bianca, sciarpa a scacchi, Costern sembra davvero un ragazzone americano del Texas. Tagliato il barbone sale e pepe, esibisce un pizzetto scolpito e porta i capelli corti, un po’ alla marine, forse per esigenze di scena. Parla lentamente, sorride, risponde gentilmente a tutte le domande, si scusa anche per i quindici minuti di ritardo dovuti al traffico da Fiumicino. Insomma non se la tira, o recita molto bene la parte.
Rivelato nel 1985 da “Fandango”, ha vinto due Oscar per “Balla coi lupi”, è stato al vertice del box-office con titoli come “Bull Durham”, “Gli intoccabili” e “Guardia del corpo”, ha pure conosciuto tonfi clamorosi, specie con i due fanta-kolossal “Waterworld” e “L’uomo del giorno dopo”. Da anni non garantisce più incassi, ma invecchia bene, ogni tanto girando un western da attore e regista, come l’ottimo “Open Range – Terra di confine”. Di recente ha vinto un Golden Globe per la miniserie tv “Hatfields & McCoys”, cronaca di una sanguinosa faida ambientata negli anni dopo la Guerra civile americana, e la ruota della fortuna è tornata a girare.
In “Black and White” fa Elliott Anderson, facoltoso avvocato di Los Angeles con villa a Santa Monica. Ha appena perso l’amata moglie per un incidente d’auto, e ancora non s’era ripreso dalla morte della figlia, che fu messa incinta da un drogato afro-americano. Un uomo alla deriva: beve troppo whisky, sta perdendo concentrazione sul lavoro. Ma ha una nipotina, Eloise, alla quale pensare; solo che la ragazzina, sveglia e vivace, è per metà nera, ha i capelli crespi, e una nonna paterna, la temperamentosa Rowena che vive nel quartiere periferico di South Central, decisa ad ottenere la custodia esclusiva di Eloise. I due nonni si detestano, sarà battaglia in tribunale, senza esclusione di colpi. Anche se…
Scandisce Costner, dopo i complimenti d’obbligo alla Città Eterna: «Il tema è delicato. Non pretendo di avere risposte. Ma sono le differenze a rendere interessante il mondo. Alcune delle cose più belle della mia vita sono successe con persone di cui non capivo la lingua». E ancora: «Il razzismo è un problema sempre vivo nel mio Paese. Noi abbiamo importato schiavi che hanno contribuito a creare l’America. Un peccato originale. E quell’errore, mai davvero sanato, l’abbiamo pagato a caro prezzo».
“Black and White”, che sarà distribuito da GoodFilms dopo il passaggio nella sezione “Alice nella città”, è un film classico, per famiglie, con le torsioni drammaturgiche giuste, un pizzico di umorismo e molte scene in tribunale. Non un capolavoro, ma si vede che Costner è affezionato assai alla “creatura”, non solo perché vi ha investito parecchi dollari. Dice: «La nostra vita è determinata spesso dalle “prime impressioni”. Vale anche per le questioni razziali. Vediamo una persona di un altro colore e sentiamo nascere in noi un pensiero che dipende anche da come siamo cresciuti, in che ambiente, sentendo quali discorsi». Nel film echeggia una “tirata” molto intensa sul tema, ed è quando l’avvocato alcolista, interrogato da un agguerrito collega nero, spiega che dietro al proprio atteggiamento non esista alcun pregiudizio. Ma sarà davvero così?
Genitore di sette figli, tre dei quali avuti dalla seconda moglie, Costner tiene a presentarsi come un brave papà. «Faccio tante cose nella vita. Recito, dirigo film, li produco, canto in giro per il mondo con la mia band Modern West… Ma tutto può cambiare, tranne una cosa: la responsabilità di essere padre». La figlia ventottenne Lily è volata con lui a Roma, e nel film intona a un funerale il classico dei Creedence “Long As I Can See the Light”; la più piccola, Grace, di quattro anni, «vive già drammi tremendi, forse farà l’attrice» scherza lui.
Un giornalista del Tg2, credendosi spiritoso, lo invita a parlare in italiano prendendo spunto dalla mediocre pubblicità per del tonno in scatola che passa a puntate in tv. Lui non capisce o forse finge di non capire. In Italia parla da sempre con la voce di Michele Gammino. Che gli sta benissimo addosso: ma la sua è più bella, da autentico “american hero”.

Michele Anselmi