Il Marc’Aurelio 2010 | Una dignitas al suicidio sulle note della Marsigliese

Un giorno il suicidio sarà un diritto dell’uomo, scritto nella Costituzione: questa è la weltanschauung che esprime Kill me please di Olias Barco, vincitore del Marc’Aurelio come Miglior Film 2010 all’ultima edizione del Festival Internazionale del Cinema di Roma e nelle sale cinematografiche dal 14 gennaio, distribuito da Archibald.
 
Il secondo lungometraggio del regista belga Barco dopo Snowborder sembra quasi un documentario realizzato per dare un decoro e una dignità al suicidio (il titolo originario era appunto Dignitas come la clinica svizzera, nei dintorni di Zurigo, dove si pratica l’eutanasia e l’associazione, attiva dalla fine degli anni Novanta, che assiste pazienti affetti da malattie incurabili).
 
In realtà, il tema del suicidio assistito, praticato nella clinica del dottor Kruger, è affrontato con toni ironici e grotteschi (percepibili fin dai primi fotogrammi che mostrano la morte splatter del regista depresso) finendo per ridicolizzare i pazienti, per la maggior parte artisti, della clinica.
 
Il protagonista di Kill me please è un luogo, appunto la clinica del dottor Kruger, dove si pratica il suicidio assistito. In un bianco-nero, tendente al cianotico, quasi a voler riprodurre il colore della morte, Barco mostra, ridicolizzandole, le motivazioni che hanno spinto le persone a desiderare il suicidio: c’è un regista depresso cronico perché lasciato dalla propria ragazza, un giocatore di poker che ha perso al gioco la moglie, una cantante lirica che, prima di morire, vuole donare a tutti i pazienti il canto della Marsigliese.
 
 
Se gli infermieri e il dottor Kruger sono gli attanti aiutanti della clinica a raggiungere la pratica del suicidio, l’oggetto di valore, il mondo esterno alla clinica (il paese e il bosco) è invece pieno di attanti oppositori, che poi ironicamente, uccidendo con colpi di pistola i pazienti, si trasformano in aiutanti. 

L’ironia, con cui Barco affronta l’eutanasia, raggiunge il suo acume dopo l’incendio che scoppia nella clinica (vedi la battuta “c’è un morto: chiama la polizia e digli che questo non è nostro”): una sorta di deus ex machina che provoca accidentalmente una vittima, travolge i protocolli e la terapia fin allora praticati, rinviando la pratica del suicidio assistito, ma non la morte dei pazienti, a volte immaginata (“è già pronta la prima colazione? Perché io sto morendo di fame”), a volte realizzata dal mondo esterno (i cecchini che sparano ai pazienti), a volte provocata dagli stessi pazienti impazziti (la scena della bara).

Il film poi si chiude con la splendida scena dell’attrice Zazie De Paris che canta la Marsigliese, realizzando così il suo ultimo desiderio: regalare al pubblico il suo canto di libertà. La cinematografia, soprattutto di lingua francofona, ha usato molte volte l’inno francese decontestualizzandolo, ma senza mai tradire la sua forza di libertà e di speranza: nel film Metropolis di Fritz Lang accompagna la rivolta degli operai, in Casablanca di Michael Curtiz è cantata da patrioti francesi, ed, infine, ne La vie en rose di Olivier Dahan è urlata dalla piccola Edith Piaf costretta ad esibirsi di fronte a un pubblico imbarbarito. 

Qui Zazie De Paris, che ha eseguito l’inno anche in occasione della premiazione al Festival di Roma, lo canta assegnandogli un significato duplice: come inno di libertà degli artisti (non avrebbe altra spiegazione il palcoscenico teatrale che la scena ricostruisce) e come inno di libertà di qualsiasi individuo di fronte al tema dell’eutanasia (Bien moins jaloux de leur survivre, Que de partager leur cercueil, Nous aurons le sublime orgueil, De les venger ou de les suivre).

 

 

Alessandra Alfonsi