L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per Cinemonitor

Emir Kusturica ce l’ha con la Nato, e magari ha pure ragione dal suo punto di vista. Ma francamente non sta qui il problema di “On the Milky Road”, sottotitolo italiano “Sulla via lattea” (in senso concreto e metaforico). Ha impiegato anni il regista serbo-croato, classe 1954, a terminare questo film, forse il suo più faticoso e tormentato; e ci sono voluti altri nove mesi perché uscisse l’11 maggio, distribuito da Europictures, dopo l’anteprima in concorso alla Mostra di Venezia 2016. Il giovane regista di Sarajevo che nel 1981 spiazzò tutti al Lido col suo “Ti ricordi Dolly Bell?”, aggiudicandosi subito il Leone d’oro per il miglior esordio, è ormai un pallido e fracassone fantasma di se stesso. Da tempo non ha più niente da dire, se non vivere di una certa aura da cineasta maledetto tendente all’alcolico, un po’ musicista rock e un po’ ammiratore di Putin, sempre scapigliato e arruffone.
Ci si chiede se il regista creda davvero a ciò che afferma nelle interviste, quando spiega: «Mi piace pensare a questo film come a una fiaba moderna sviluppatasi a partire da vari strati della mia vita». Bisogna diffidare delle “fiabe moderne”, al cinema, perché la formula sa di contenitore buono per tutti gli usi; certamente, in questo caso, utile a riciclare con fragoroso manierismo alcuni arcinoti cliché: le trombe, le fisarmoniche, le gag velocizzate, la sanguigna voracità degli slavi in fatto di cibo e sesso, i falchi, le capre, i serpenti, le oche che s’immergono nel sangue di un maiale appena sgozzato, la natura che resiste alle offese della guerra, gli spari per aria, le donne sfrenate.
“Tratto da tre storie vere e molta fantasia” avverte una scritta sui titoli di testa. Eccoci così di nuovo paracadutati nella guerra civile che insanguinò l’ex Jugoslavia. Kosta, cioè lo stesso Kusturica in veste d’attore, è un sopravvissuto che ogni mattina attraversa la linea del fuoco, a cavallo di un asino e “protetto” da un ombrello, per rifornire la sua guarnigione di latte. Le pallottole sembrano magicamente risparmiarlo, una giovane e sensuale ragazza vuole sposarlo, il conflitto sembra stia finendo. Ma una misteriosa donna italiana, cioè Monica Bellucci, entra prepotentemente nella sua vita. Promessa in sposa a un “eroe” guercio da un occhio che sta per tornare, la “straniera” custodisce un ambiguo passato; un generale dei Caschi Blu è finito in carcere per lei e ora l’uomo la rivuole indietro, viva o morta. Sicché, benché sia scoppiata la pace, tre killer delle squadre speciali arrivano nel borgo in festa per regolare i conti con la svergognata e distruggere tutto. Il lattaio e l’italiana, salvi per miracolo, scappano inseguiti dal terzetto, e il film si trasforma in una lunga caccia verso la speranza.
«Ci vuole un lieto fine» teorizza Kusturica per bocca del suo personaggio. Non andrà proprio così, ma l’epilogo, ambientato tre lustri dopo quegli eventi, pur riciclando un’immagine già sfruttata dal regista nel cortometraggio “Our Life”, è la cosa più azzeccata del film, perché introduce un elemento di meditazione spirituale in un clima spesso inutilmente fasullo e survoltato, tra botti, lanciafiamme e poetiche farfalline. Il regista, come attore, è quello che è: poco espressivo e assai vanitoso. Molto meglio la nostra Monica Bellucci, che nella versione originale parla la lingua locale (a parte quando intona “La più bella del mondo” di Marino Marini), si sottopone alle ruvidezze avventurose della fuga e sfodera una bellezza calda e protettiva in linea con la storia romantica.

Michele Anselmi