L’angolo di Michele Anselmi
Da venerdì 16 novembre, ma solo sulla piattaforma Netflix (niente sale cinematografiche mirate), si può vedere il nuovo film dei fratelli Coen, “La ballata di Buster Scruggs”, premiato alla recente Mostra di Venezia per la migliore sceneggiatura. Non entro qui nella polemica su Netflix, i film da far uscire o non far uscire nelle sale, il decreto legge della coppia Bonisoli-Borgonzoni, le famose “finestre”, eccetera. Ripubblico qui sotto, con qualche minima variazione, solo ciò che scrissi dal Lido ai primi di settembre. Per chi fosse interessato.
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Doveva essere una serie televisiva in sei parti, anche se la voce poi è stata smentita. Nei fatti è diventato un film ad episodi, sempre per Netflix, e forse è stato meglio così. Con “The Ballad of Buster Scruggs” i fratelli Joel & Ethan Coen tornano al western, e lo fanno alla loro maniera sulfurea e pessimista, inventando sei storie, perlopiù tendenti al macabro, che sembrano uscire da un libro di racconti in stile Louis L’Amour. Naturalmente ciascuna di esse allude, più o meno, ad altrettanti sottofiloni dell’epopea western, ma non è necessario cogliere riferimenti spiritosi e strizzatine d’occhio per gustare il cine-volumetto da scorrere come fosse uscito da una biblioteca ottocentesca.
Girato in digitale e infarcito di partecipazioni illustri, da James Franco a Liam Neeson, da Tim Blake Nelson a Tom Waits, da Brendan Gleeson a Tyne Daly, il film si apre e si chiude con la straziante ballata “Streets of Laredo” che riassume bene il senso dell’operazione, all’insegna di una soffusa quanto funerea nostalgia. Ogni tanto i Coen la buttano in burletta e si ride, salvo poi virare verso un’epica più classica e struggente, sia pure attraversata da un lampo di perfidia: sulla natura umana, sulle bizzarrie del caso, sulle strettoie dell’esistenza.
Un pistolero canterino vestito di bianco che pensa di essere invincibile nonostante la ricca taglia che pende sulla sua testa; un inetto rapinatore di banche che scampa all’impiccagione ma finirà lo stesso sulla forca per un reato mai commesso; un malinconico show teatrale itinerante con un ragazzo inglese senza gambe e senza braccia, una specie di freak, che recita alati pensieri tratti da Shelley e Lincoln a rozzi pionieri sotto lo sguardo dell’impresario avido; un vecchio cercatore d’oro che ai bordi di un ruscello paradisiaco trova finalmente la vena d’oro capace di renderlo ricco se non fosse che…; una zitella destinata in moglie a un benestante dell’Oregon che si innamora di uno dei due cowboy incaricati di guidare la carovana attraverso i territori indiani; una diligenza con cinque passeggeri a bordo, due dei quali stanno molto ad ascoltare e forse non sono coloro che dicono di essere.
Volendo le citazioni si sprecano: dai film con Gene Autry alla parodia di “Per qualche dollaro in più” (in un episodio siamo a Tucumcari), da “I compari” a “La ballata di Cable Hogue”, da “L’ultima carovana” a “Ombre rosse”. Ma alla fine dei conti credo che i Coen non abbiano più di tanto saccheggiato la cineteca, preferendo cucire addosso ai loro personaggi, s’intende abbastanza tipicizzati, pure stereotipati, destini che potremmo definire buffi se non fossero quasi tutti ghermiti dalla morte. Humour nero e iconografia western vanno a braccetto in “the Ballad of Buster Scruggs”, lasciando nello spettatore un vago senso di disagio, forse anche una domanda esistenziale: verso dove s’avviano davvero i viaggiatori della diligenza che chiude simbolicamente l’antologia?
Michele Anselmi