L’angolo di Michele Anselmi
“Se prima la povera gente era affamata ora è famelica” ruggisce il brigante sullo schermo. Sarebbe stato un perfetto strillo di lancio per “La banda Grossi”, il film di ambientazione ottocentesca, realizzato con determinazione dai fratelli marchigiani Claudio ed Enrico Ripalti, l’uno regista e sceneggiatore, l’altro produttore e musicista, che esce in alcune città il 20 settembre.
La banda Grossi è esistita davvero, basta consultare Wikipedia per saperne di più. E il film omonimo, girato in buona misura nei luoghi originari della provincia di Pesaro e Urbino, si fa un gran parlare del Furlo, ricostruisce ora con piglio vagamente western, senza alterare i fatti ma con qualche legittima invenzione, le “gesta” criminali dei fuorilegge capitanati da Terenzio Grossi.
S’è discusso in merito alla vocazione filo-pontificia della masnada, nel senso che Grossi e i suoi avrebbero goduto di una discreta simpatia popolare, proprio in virtù delle vessazioni (nuove tasse e leva obbligatoria) imposte dai prefetti sabaudi dello Stato unitario.
Il film non riscrive la storia del Risorgimento, di certo non glorifica i furfanti che si diedero alla macchia rapinando e uccidendo, ma ovviamente ne sposa il punto di vista ribellistico, anarcoide, specie quando fa dire proprio a Grossi: “Ci hanno dato un re e ci hanno fatto credere che eravamo noi a volerlo”.
Carcere di San Leo, 1863: Olinto Venturi, uno dei sopravvissuti in attesa del processo, è interrogato da un funzionario del Tribunale militare di Ancona. L’avvocato vuole sapere come andarono davvero i fatti, soprattutto se i carabinieri, guidati da un giovane capitano sul quale pende un’ingiusta accusa, fecero tutto il possibile per reprimere la banda. Così si torna all’inizio, a tre anni prima: quando Grossi, un ex bracciante di Urbania condannato a dodici anni, scappa dal medesimo carcere di San Leo e rimette insieme il mucchio selvaggio. All’inizio sono in sette, poi si aggiunge un dandy che parla forbito e maneggia un micidiale fucile americano Sharp (il flashback nel flashback è una delle cose più azzeccate).
Non si atteggiano a Robin Hood: irrompono nelle ville dei ricchi in cerca di scudi e baiocchi, picchiano duro e in qualche caso stuprano le donne. Il prefetto Catalano, scaltro e luciferino, è pronto a tutto, anche a pagare Grossi offrendogli un salvacondotto, pur di liberarsi della scocciatura. Del resto i carabinieri, guidati dal brigadiere Francesco Cardinale, sembrano destinati a soccombere nei primi scontri armati. Bisogna trovare il Giuda della situazione: e se fosse il più sanguinario della ghenga, tal Sante Frontini, un furfante patentato dedito a ogni tipo di brutalità?
Nella realtà le cose andarono più o meno come le rievoca il film, poi certo i Ripalti brothers mostrano di essersi abbeverati a tanto cinema anglosassone sul tema, diciamo da “I fratelli Kelly” a “L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford”; anche se nella cine-partitura, di sicuro inconsapevolmente, qua e là echeggia qualcosa del severo “Tiburzi” di Paolo Benvenuti sul brigante toscano.
Alcuni nomi risultano cambiati, l’untuoso prefetto si chiamava Bardesono e non Catalano, e spira a tratti un clima crepuscolare, da malinconica epopea contro “borghesi, burocrati e ruffiani”. Avrete capito che l’iconografia è un po’ da western risorgimentale, tra cappelloni, barbe incolte, mantelle, schioppi e pistole, sigari perennemente in bocca, fiaschi di vino rosso, battute sibilanti alla Leone, del tipo “Grazie per la colazione, prete”. Sui titoli di coda, sia pure rifatta, spunta addirittura “Como estais amigos” degli Iron Maiden, quasi ad allargare le frontiere della vicenda per renderla universale, leggendaria, in linea con le musiche da ballata old-time di Enrico Ripalti.
Suggestivo nel respiro dei paesaggi montani e preciso nella ricostruzione filologica, il film però accusa qualche cedimento drammaturgico, talvolta fa parlare in modo tra l’erudito e l’ideologico i personaggi. Quanto agli interpreti, Camillo Marcello Ciorciaro fa del suo laconico Terenzio Grossi un mix flebile tra il Franco Nero e il Gian Maria Volonté dei vecchi “cappelloni”; al contrario Rosario Di Giovanna molto ghigna, urla e digrigna nei panni dello psicopatico Frontini; mentre più intonati appaiono Leonardo Ventura, Simone Baldassari, Roberto Marinelli, Mario Diodati, Roberto Adriani nei rispettivi ruoli di Olinto, del brigadiere, del prefetto, del possidente e del prete.
Nondimeno “La banda Grossi” merita una visita: per lo stile inconsueto, per la sua grinta indipendente, per il coraggio sfoderato contro la pigra tendenza del cinema italiano a rifiutare storie in costume che pescano nella storia patria.
PS. Il film esce il 20 settembre a Pesaro, Fano, Civitanova Marche, Urbino, Termoli, Ascoli Piceno, Brescia, Tolentino, Macerata, Roma, Termoli, Brescia, Matera. A Urbino il 15 settembre (Cinema Ducale) l’anteprima marchigiana per il pubblico, la stampa e le autorità. Esauriti i 500 posti.
Michele Anselmi