L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per Cinemonitor
Ogni parere è lecito, ci mancherebbe. Ma questo fa un po’ sorridere. «Finalmente sappiamo come è fatto il primo film “trumpiano” dell’anno. Lo firma l’instancabile, religiosissimo Mel Gibson e narra di un fatto realmente accaduto anche se il suo tocco lo fa diventare un’opera surrealistica». Così, su “Globalist Syndacation”, il critico e scrittore Ivo Mej, e giù sfottò coloriti nei confronti di “La battaglia di Hacksaw Ridge”. Che cosa c’entri Trump e il “surrealismo” proprio non si capisce.
In realtà è a un cinema classico, deciso a farsi amare dallo spettatore, riporta invece Mel Gibson col suo nuovo film, fuori concorso a Venezia 2016 e da giovedì 2 febbraio nelle sale con Eagle Pictures . “La battaglia di Hacksaw Ridge” segna il suo ritorno alla regia a dieci anni da “Apocalypto”. Spesso liquidato con faciloneria come un cine-barbaro, un fanatico cristiano, un sadico fuori controllo, un “pornografo” della violenza, il 62enne Gibson racconta con forte senso dello spettacolo e onestà morale, in 131 minuti, la storia vera di Desmond Doss, il primo obiettore di coscienza dell’esercito americano insignito della Medaglia d’onore del Congresso.
Giovane contadino delle Blue Ridge Mountains in Virginia e devoto membro della Chiesa avventista del Settimo Giorno, Doss si arruolò per andare a combattere i giapponesi dopo Pearl Harbor. Ma “combattere” non è la parola giusta: risoluto a non uccidere mai e quindi neanche a imbracciare il fucile d’ordinanza, il giovanotto fu irriso, apostrofato come vigliacco, picchiato, pure incarcerato. Ebbe la meglio. Finì paracadutato come ausiliario della Croce rossa nell’inferno di Okinawa, 1945, battaglia decisiva per vincere la guerra, e lì salvò in una notte terribile 75 commilitoni feriti destinati, senza la sua audacia, ad essere uccisi dai giapponesi.
Un eroe pacifista, un uomo di saldi valori, un soldato sui generis, che il giovane Andrew Garfield, candidato all’Oscar nella categoria miglior attore protagonista, disegna con impeccabile spirito americano, riuscendo a restare in bilico tra biografia e allegoria senza cadere nell’agiografia. Mentre Gibson, alla regia, mostra, con stile accurato, un po’ di retorica e qualche compiacimento a lui congeniale, la ferocia della guerra, fino quasi a farci sentire l’odore del sangue, la puzza della carne straziata, l’afrore acido della paura.
Michele Anselmi