L’angolo di Michele Anselmi | Per Cinemonitor
«Per Dio e per la Patria: preso Geronimo» scandisce in codice il barbuto capo dei Navy Seals nel film di Kathryn Bigelow. Maya, la trentenne analista della Cia che più s’è spesa, finalmente può sorridere, prima di piangere. “Zero Dark Thirty”, nel gergo militare il cuore della notte, rievoca come fu ucciso Osama bin Laden, tra 1 e 2 maggio 2011, dopo una caccia all’uomo durata dieci anni. Non un kolossal bellico, è costato appena 20 milioni di dollari, ma un film che scava dentro, perché problematico e non retorico, appassionante nel restituire gli eventi nel corso di 157 minuti a prova d’orologio, senza offrire zone di conforto allo spettatore.
Qualche settimana fa tre senatori Usa, due democratici e uno repubblicano, hanno scritto una letteraccia alla Sony Pictures, definendo il film «inaccurato e fuorviante». Bigelow avrebbe sopravvalutato il ruolo svolto dalla tortura, peraltro largamente praticata dagli americani dopo l’11 Settembre su mandato del presidente Bush, nei confronti di terroristi e fiancheggiatori, al fine di strappare informazioni utili a catturare lo Sceicco del terrore.
Francamente non si capisce perché Maya, l’agente alla quale la Cia conferì la Distinguished Intelligence Medal, dovrebbe essersi inventata proprio questo dettaglio, non da poco, nel confidarsi con Kathryn Bigelow e lo sceneggiatore Mark Boal. La battagliera Maya, nome in codice, sullo schermo ha il portamento fiero, i capelli rossi e la lingua affilata di Jessica Chastain, ormai lanciatissima a Hollywood. Ostacolata e osteggiata dai colleghi, accusata di voler far carriera ad ogni costo, presa quasi per matta, la giovane spia esce dal film come un’eroina “sui generis”: umana e spietata insieme, determinata nel ribadire la propria tesi di fronte al tentennante capo dell’Agenzia Leon Panetta. In qualche modo assurge a metafora dell’America post-11 Settembre.
Uscito il 19 dicembre per poter gareggiare agli Oscar (cinque le nomination poi ottenute nelle categorie principali), “Zero Dark Thirty” ha incassato finora 83 milioni di dollari in patria. Non male. Deludente, invece, nonostante il clamore mediatico, il risultato italiano: poco più di 600 mila euro in una settimana. Peccato.
Di sicuro Kathryn Bigelow, regista 62enne bella e guerriera, già premio Oscar per l’esplosivo “The Hurt Locker”, firma con “Zero Dark Thrity” forse il suo miglior film, tra i nove girati. Compatto, realistico, drammaturgicamente complesso, per nulla giustificazionista nei confronti della tortura, mostrata anzi, nei primi trenta minuti, per quello che è, purtroppo. I rituali e gli attrezzi, svelati al mondo dalle terribili foto di Abu Ghraib, ci sono tutti: corde, cappi, cappucci, collari da cane, waterboarding, umiliazioni sessuali, scatole costrittive, rock a volume assordante…
«Da essere umano avrei voluto coprirmi gli occhi e non guardare, ma come film maker sentivo la responsabilità di documentare e testimoniare, ho dovuto vincere il mio disagio, quelle atrocità sono davvero accadute» confessa la regista in merito alle scene di sevizie, rese con cruda efficacia, un po’ come succedeva in “Rendition. Detenzione illegale”. Del resto, hai voglia a dire che i “black site” della Cia sono un’invenzione: il film mostra una di queste prigioni clandestine nascosta in una nave mercantile a Danzica.
«Cerca di capire questo concetto. Io ho tempo, tu no, prima o poi tutti cedono. È una cosa biologica» sibila l’uomo della Cia, incarnato da Jason Clarke, al terrorista che sta “interrogando”. Non c’è traccia di sadismo o depravazione in lui, ma quanto reggerà a fare quello sporco mestiere per conto di Washington?
Diviso in cinque capitoli, con titoli come “Il gruppo saudita”, “Errore umano”, “Tecniche operative”, il film è costruito su un’ossessione che si chiama Abu Ahmed. Dopo un prologo con le voci disperate dalle Twin Towers, si parte nel 2002, con Maya che arriva in Pakistan da Langley per dare una mano alla locale sezione della Cia. La trattano da novellina, lei sembra non reggere alla ferocia della guerra al terrore. Ma il suo sguardo, che a tratti coincide con quello della regista, non è sconfitto. L’unico modo per scoprire dove si nasconde Osama – sostiene – è beccare il suo “corriere” di fiducia, appunto il misterioso Abu Ahmed: forse morto, forse no.
In fondo “Zero Dark Thirty” è un film di dialoghi serrati, un reportage investigativo che solo nel finalissimo, col raid notturno nel “fortino” di Abbottabad riprodotto senza enfasi, con senso della suspense, scopre le sue carte d’azione. Pudicamente, forse per rispetto nei confronti del pubblico islamico, il viso di bin Laden non si vede mai: una presenza-assenza, anche da morto.
Michele Anselmi