Quella del remake è una delle politiche di punta della cinematografia di genere degli ultimi anni. C’è chi, come Federica Ballero, la considera il sintomo di un inarrestabile declino della creatività. Un’attenta lettura degli eventi però dovrebbe smentire questa interpretazione, forse troppo estrema: concepire un film come un testo narrativo su un supporto non cartaceo potrebbe garantire una maggiore precisione nel declinare l’atto del rifacimento; ci sono infatti anche esempi di remake molto felici, come quello di Gus Van Sant su Hitchcock. In ogni caso, se ogni pellicola è un testo, la riscrittura porta sempre con sé il segno dei tempi, non c’è mai una copia perfetta dell’originale.
La Casa non fa eccezione: Fede Alvarez, riplasma il capolavoro di Sam Raimi (che questa volta lavora solo nella produzione) in un modo nuovo, confermando l’idea che sia ineliminabile, da qualsiasi remake cinematografico, l’impronta dell’autore e – più ancora – il senso della mutazione del contesto storico ed estetico. Di questo, The Evil Dead è un esempio lampante: al di là delle modifiche narrative, che non appaiono sempre particolarmente intelligenti, tutto nel film di Alvarez trasuda di contemporaneità e si respira, fra le pieghe del film, l’aria inquieta di questi anni.
Sin dal prologo, non presente nell’opera originale, si percepisce la volontà dell’autore di venire incontro a un pubblico profondamente mutato, che ha bisogno di risposte e le vuole in un tempo breve. Sam Raimi non aveva avuto bisogno di spiegare, negli anni Ottanta, da dove venisse la forza che infestava la casa, molto era lasciato alla libera interpretazione del pubblico e la riuscita della pellicola stava anche in questo. Ma negli anni Duemila il dominio della tecnica e la diffusione capillare delle tecnologie di comunicazione consentono un reperimento informativo che può avvenire a una velocità incalcolabile. Questo sembra aver influito sulle nostre capacità percettive e il cinema, specchio dei tempi, si è adeguato in fretta a questo mutamento. Tutto, nel nuovo La Casa è spiegato chiaramente; nullo è lo sforzo di decodifica mentale che lo spettatore è chiamato a fare.
A ciò si aggiunge un ritmo veloce, anzi velocissimo, che diventa addirittura concitato nei momenti di massima tensione emotiva: nessuna ricerca, insomma, da parte del regista nel tentare di creare dei nodi emozionali che possano tenere avvinto il pubblico, stuzzicandone la fantasia e suscitandone il terrore. Ancora una volta, sembra che la ragione di questa accelerazione abbia una profonda radice sociologica, che manifesta il disagio della postmodernità. Ugualmente si può spiegare la necessità che Alvarez sembra manifestare di fare ampio ricorso alla sfera visiva del sangue, molto più ridotta nel film originale. In particolare nelle ultime scene assistiamo a una vera e propria esplosione ematica, che rasenta il fastidio e che comunque appare piuttosto insensata. Nel complesso, poi, va notato che il film di Raimi – che contava su effetti speciali che oggi appaiono per quello che sono – impressiona molto più di quello di Alvarez.
Con ciò non si vuole suggerire che il remake sia spiacevole: in fin dei conti si tratta di un prodotto accettabile, che riesce tutto sommato a intrattenere almeno gli appassionati. Il regista ha probabilmente fatto il meglio che poteva e bisogna dargli atto di aver realizzato un prodotto che riflette appieno lo spirito del suo tempo. Se si cominciasse a considerare un po’ meglio quali siano le caratteristiche di questo tempo, però, tutto ciò che si è cercato di evidenziare poco sopra apparirebbe nella sua drammatica evidenza.
Giuseppe Previtali