L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per Cinemonitor
A pensarci bene, “La casa delle estati lontane” sembra un prologo intimista e familiare di “Rabin, the Last Day”, il vigoroso film di Amos Gitai che fu in concorso a Venezia 2015 per poi scomparire dai radar (a parte qualche sporadica proiezione). Gitai racconta, con scrupolo documentaristico, affidandosi ai verbali e a severe ricostruzioni in studio, il dopo: cioè l’indagine sui vuoti, le “coincidenze” e le connivenze che portarono, quel 4 novembre del 1995, alla morte del ministro Yitzhak Rabin per mano di un militante ebreo di estrema destra. La sua “colpa”? Aver sottoscritto gli accordi di Oslo, in base ai quali per la prima volta Israele e Palestina si riconoscevano come legittimi interlocutori. Al termine di un grande raduno pacifista, il premio Nobel venne freddato a distanza ravvicinata.
“La casa delle estati lontane” finisce proprio dove comincia “Rabin, the Last Day”: tre sorelle, in viaggio verso Tel Aviv per partecipare alla manifestazione, cantando a squarciagola in auto “C’est ma prière” di Mike Brant, scoprono alla radio quanto è appena successo. Restano come inebetite, sul ciglio della strada, mentre tante altre auto si fermano in quella landa desolata.
Opera prima di Shirel Amitaï, 53enne regista nata in Israele ma cresciuta professionalmente in Francia, “La casa delle estati lontane” è una tenera commedia femminile che cerca una strada espressiva non convenzionale: in bilico tra realtà e memoria, con accensioni fantastiche, apparizioni enigmatiche, frammenti onirici. Certo il doppiaggio italiano, corretto ma un po’ sopra le righe, non aiuta, e anzi a volte introduce un eccesso di enfasi che probabilmente risulta più trattenuta nella versione originale.
La casa in questione si trova ad Atlit, piccola città costiera a sud di Haifa: abbandonata da anni, dopo la morte dei genitori, le tre sorelle che l’hanno ereditata sono arrivate lì per venderla. Darel, la più grande, viene dal Canada, dove ha un marito e dei figli, ma forte è la nostalgia per Israele, quei profumi, quel sole, quelle piante; Calì viene da Parigi, dove vive da anni e intende tornare al più presto mettendo a frutto i soldi della vendita; Asia, la più fragile e tenera, parla solo di medicina ayurvedica, è un po’ fricchettona, forse la più fragile di tutte.
La casa è sgarrupata, malridotta; il giardino infestato di rovi e sterpi; tutto è accatastato male, coperto di polvere, niente, a partire dall’impianto elettrico è “a norma”. Le tre donne la sistemano con sobria eleganza, per renderla più appetitosa agli occhi degli acquirenti; e intanto, mentre i due genitori scomparsi si fanno “vivi” come fantasmi chiacchieroni e invadenti, nuovi diverbi si profilano. Darel non è più tanto sicura di vendere e di sicuro non le dispiace la corte dell’agente immobiliare; Asia si defila per un viaggio verso il deserto; solo Calì resta in quella casa, a fare i conti con se stessa, con la propria condizione esistenziale di donna divisa tra origini ebraiche e vita parigina (come la regista, del resto).
“La casa delle estati lontane” è stato accusato di semplificare, con un eccesso di toni zuccherosi, la tragica natura del conflitto tra israeliani e palestinesi; ma la critica sembra ingiusta, perché Amitaï, pur dentro uno stile a tratti sorridente o eccentrico, non nasconde nulla, l’eco della morte violenta arriva attraverso il personaggio “fantasmatico” del bambino arabo che raccoglie le olive e forse proprio lì fu ucciso, a un passo dalla fossa dove venne sepolto l’asino bianco Rasputin.
Naturalmente il film sfodera un punto di vista, diciamo, “progressista”, sposa la via del dialogo tra i due popoli in guerra permanente, mostra anche, attraverso spezzoni d’epoca, la ferocia della truce propaganda anti-Rabin legata al Likud. Ma è il versante privato a prendere il sopravvento, in una sorta di ballata muliebre all’insegna della sorellanza, intonata dalle tre attrici coinvolte, e cioè la stupenda Yaël Abecassis (Darel), la nervosa Géraldine Nakache (Calì) e la trasognata Judith Chemla (Asia). A sorpresa, nel ruolo del padre-fantasma confusionario e gentile, appare il nostro Pippo Delbono, mentre la madre, saggia e protettiva, è l’armena-canadese Arsinée Khanjian, vista in tanti film del marito Atom Egoyan.
Michele Anselmi