Ieri, 16 marzo, anniversario dell’ottantunesimo compleanno di Bernardo Bertolucci (1941-2018), il cinema Troisi di Roma ha celebrato il grande regista proiettando l’opera prima “La commare secca”, a sessant’anni esatti dall’uscita, in una versione recentemente restaurata dalla Cineteca Nazionale. Il soggetto, scritto da Pasolini qualche anno prima, fu acquistato dal produttore Tonino Cervi dopo il grande successo di “Accattone” (1961). Il regista bolognese, all’epoca sul set di “Mamma Roma”, indicò a Cervi due autori che avrebbero potuto dare vita alla sua idea: il primo era Sergio Citti, lo sceneggiatore di “Accattone”, mentre il secondo era un ragazzo di appena ventuno anni che era già stato suo aiuto regista, Bernardo Bertolucci.
La serata evento al Cinema Troisi è stata presentato dal regista Marco Tullio Giordana che, nell’introdurre la pellicola, ha cercato di sfatare quello che ha sempre ritenuto grande fraintendimento, vale a dire che “La commare secca” sia un film pasoliniano. Il produttore Cervi, nel commissionare l’opera, raccomandò a Bertolucci di girare alla maniera del suo maestro perché – nella sua idea – sarebbe stato troppo rischioso affidare l’intera riuscita del progetto ad un ragazzo così giovane ed inesperto. In realtà ciò non avvenne. Benché siano di chiara ispirazione pasoliniana il soggetto, l’ambientazione e anche i personaggi, Giordana sottolinea quanto Bertolucci sia riuscito ad «emettere il primo vagito già perfettamente intonato».
È innegabile che i personaggi siano “pasoliniani”, ma è altrettanto vero che il regista di “Il vangelo secondo Matteo” era solito tratteggiare i suoi in maniera più sacrale e compassionevole, forse perché conosceva più da vicino l’umanità al centro dei suoi racconti. Bertolucci, dal canto suo, è molto più lirico, mira a «scrivere una poesia con la macchina da presa» per sua stessa ammissione.
Anche i movimenti di macchina sono completamente diversi. Le inquadrature dell’intellettuale emiliano sono statiche e frontali, e trovano spesso ispirazione da capolavori come “La passione di Giovanna d’Arco” di Dreyer (1928) o dalla pittura medievale fiorentina. L’opera di Bertolucci, invece, vuole essere molto più dinamica: anche in questa opera prima sono già presenti i suoi sinuosi movimenti di macchina sinuosi e l’attenzione all’aspetto estetico è già altissima.
Nello specifico, “La commare secca” ha una struttura che ricorda il “Rashomon” di Kurosawa (1950), benché Bertolucci non lo avesse ancora visto: si racconta, infatti, l’omicidio di una prostituta attraverso una serie di flashback che illustrano il punto di vista di persone passate sul luogo del delitto. La pellicola ha in definitiva la struttura di un thriller, sebbene l’intento del regista fosse raccontare, con timbro poetico, le giornate dei protagonisti. Il finale, poi, svela il senso del titolo ispirato agli ultimi versi di una poesia di Gioacchino Belli: «E ggià la Commaraccia secca de Strada Giulia arza er rampino». In romanesco, del resto, “la commare secca” sta per la morte, che ci ricorda «odie mihi cras tibi» (oggi a me, domani a te), come recita l’iscrizione fuori dalla chiesa di Santa Maria dell’Orazione e Morte, situata, appunto, in via Giulia.

Giovanni Vitale