A colloquio con Mario Simoncini, autore di “La conquista del West – 100 western americani da leggenda”, in libreria per Profondo rosso editore. Il corposo e pregevole testo racconta e riscopre il genere di John Ford e Clint Eastwood con acume e limpidezza di scrittura attraverso 100 schede di approfondimento storico critico di film statunitensi più un’appendice dedicata allo spaghetti western.

“La conquista del West” è un libro dedicato al genere americano per eccellenza, quello che meglio racconta il mito fondativo della nazione stessa, anche considerando, come scrive nel suo testo, che i primi film western raccontavano una realtà ancora attuale e non soltanto un mito lontano nel tempo… Può parlarci di questo concetto?
Mario Simoncini: Se ho ben capito la domanda, va anzitutto ricordato quanto scriveva André Bazin, che il western è il genere cinematografico per eccellenza perché la sua essenza non può limitarsi ad alcuna delle sue componenti visive e narrative (il movimento, la cornice paesaggistica, i suoi temi più frequenti come per es. il trasferimento delle mandrie) ma le trascende tutte: esse possono essere traslate in Australia o nella Camargue francese, o addirittura – e questo il critico non poteva saperlo – ad Almeria in Spagna o negli studi di Cinecittà, ma non costituiscono di per sé l’essenza del western. La sua essenza, dunque, consiste in qualcosa che trascende la sua forma: il mito. Per citare alla lettera ancora Bazin “il western è nato dall’incontro di una mitologia con un mezzo di espressione”
In ogni caso i primi western, quelli dell’inizio del secolo scorso, appaiono strettamente intrecciati a una realtà ancora attuale: mentre le sale più popolari e a buon mercato sono affollate di spettatori vocianti ed entusiasti, Buffalo Bill Cody si esibisce ancora con il suo Circus (morirà nel 1917) e Wyatt Earp, che morirà nel 1929, frequenta i set e fa amicizia con William S. Hart, Tom Mix e Douglas Fairbanks, e incrocia addirittura un giovane John Ford.

La formula che ha scelto, quella di una selezione, di una classifica che si aggira sui 100 titoli totali, è tra le più fortunate per quanto riguarda la trattatistica cinematografica. Può spiegare ai nostri lettori perché ha scelto di raccontare il western in questo modo?
M.S.: Avevo in realtà considerato altre possibilità: cimentarmi con un approccio di tipo storico, e cioè una vera e propria Storia del Western, o focalizzarmi su alcuni aspetti tematici, come per es. il ruolo della donna, o ancora dare esplicitamente corpo alla mitologia del West ancorandomi alla Bibbia o alla narrazione omerica… e d’altra parte sempre Bazin paragona la Guerra Civile Americana ai fatti narrati dall’Iliade e la marcia verso il West al viaggio dell’Odissea, in un mescolarsi di epopea e tragedia. Ho scoperto però di avere voglia di fare un percorso nella memoria, di rievocare e riscoprire quelle opere che mi hanno accompagnato nel tempo, da bambino prima, poi da ragazzo e fino alla piena maturità, la maggior parte viste al cinema, alcune in tv, tutte adesso rivisitate grazie ai preziosi dvd e blu ray e confrontate con i western usciti in questi anni, come “The Revenant” o “The Sisters Brothers”. E mi sono divertito con l’idea di classificarli in ordine di preferenza, con somma presunzione e forse delirio di onnipotenza, spero perdonabili.

Quali crede siano, oggi, i generi cinematografici in cui, meglio che in altri, hanno sedimentato forme e stilemi del western classico?
M.S.: Il western classico è stato spesso rivisitato all’interno del genere stesso, basti pensare a opere come “The Missing” di Ron Howard o “Appaloosa” di Ed Harris, tutt’altro che disprezzabili, ma in definitiva operazioni di ricalco, abbastanza lontane dall’attitudine dissacratoria dei film di Tarantino. Fuori dal genere western possiamo considerare un ventaglio piuttosto ampio, dalla saga di “Star Wars” (soprattutto i primi tre, con l’esplicito richiamo, nel personaggio di Han Solo interpretato da Harrison Ford, ai cowboy della prateria) ad alcuni prodotti della Marvel, da certi polar francesi così prepotentemente legati al tema dell’amicizia e del tradimento (“Borsalino” di Jacques Deray o “36 Quai des Orfèvres” di Olivier Marchal) ad action movies americani come lo splendido “Heat – La sfida” di Michael Mann (il poliziotto e il fuorilegge, cowboy urbani che scoprono di non essere poi così dissimili nella loro solitudine) o i più modesti “Training Day” di Antoine Fuqua e “Gangster Squad” di Ruben Fleischer.

Leggendo le schede è evidente come, anche per il suo punto di vista critico, gli anni ’50 rappresentino l’acme del western. In che modo si spiega questo concetto e quali sono le caratteristiche dei maggiori film che appartengono al decennio?
M.S.: Se gli anni ’30 sono stati per Hollywood il trionfo della sophisticated comedy, del musical e del gangster movie, e gli anni ’40 quello del noir, spesso legato alla figura del reduce e delle sue ferite, gli anni ’50, ancora per poco ancorati alle logiche dello Studio System, sono stati a mio parere gli anni d’oro del western, sia per qualità che per quantità. Western delle produzioni mainstream, western della cd. serie B che cercavano di contrastare l’appeal della televisione utilizzando anch’essi il formato panoramico e il colore. Sul piano tematico possiamo parlare di una maturità finalmente raggiunta, quella di un genere che, a volte inconsapevolmente, esplora dal di dentro i suoi modelli narrativi (“Vera Cruz” è già in qualche modo un metafilm), non esita a contaminarsi con altri generi (il melodramma con “Johnny Guitar”, la detection story con “Rancho Notorious”, il dramma edipico con “Jubal” o “Gunman’s Walk”), affronta l’angoscia della contaminazione razziale (“The Searchers”, “The Unforgiven”), ci presenta eroi stanchi e disillusi che mostrano senza pudore le loro cicatrici (i film di Anthony Mann e di Budd Boetticher). Gran parte di questo lo ritroveremo nelle opere più significative dei decenni successivi, “The Wild Bunch”, “Heaven’s Gate” e “The Unforgiven”.

Come nasce il progetto di “La conquista del West” e in che modo è legato alla sua vita di spettatore-affezionato?
M.S.: Nasce dal desiderio di rivedere, alla luce di una capacità critica spero affinatasi nel corso degli anni, tanti film che mi hanno accompagnato come amici affezionati e di cercare di scoprirne il senso più profondo. Cosa c’era, in sostanza, dietro l’apparente graniticità di John Wayne? Che cosa dietro le contorsioni al limite della nevrosi di James Stewart o di Kirk Douglas? Quali pulsioni si agitavano dietro la maschera di common man di Gary Cooper, di Henry Fonda, di Gregory Peck? Che valore attribuire ai tentativi di revisione del genere, a volte superficiali o manicheisti nell’affrontare il ruolo dei nativi? E che futuro ha il western? È vivo e riuscirà a darci altri capolavori o sta avviandosi al definitivo tramonto? Domande che vanno poste, anche se è abbastanza arduo trovare risposte soddisfacenti.